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Venerdì 20 Agosto 2010
Una madre difende la figlia:
«L'hanno picchiata in carcere»
Racconta la donna: «Sono andata a trovarla, e me la sono trovata lì seduta in lacrime, nella saletta colloqui. Aveva il viso pesto, le braccia peste... Ematomi ovunque, fin sulle gambe, cosce e ginocchia, anche morsi. Mi ha raccontato che il giorno prima, dopo avere litigato con una compagna di detenzione, sette agenti di custodia l'hanno presa in consegna e, indossando guanti di pelle, l'hanno picchiata selvaggiamente»
Con un sorriso nervoso, la signora Monica stringe tra le mani la copia di una denuncia sporta martedì ai carabinieri di San Cristoforo, zona Baggio, come fosse, quel pezzo di carta, l'ultimo gancio da afferrare nel vuoto della vita sbagliata della sua bambina, Natashja Girardi, 29 anni, comasca, ex tossicodipendente, detenuta a Vigevano per scontare un anno e spiccioli di detenzione, souvenir di una goffa rapina a un piadinaro in centro città. La denuncia della madre racconta di un episodio che risale al giorno successivo a Ferragosto, storia - se l'indagine la confermerà, in toto o in parte - storia di carcere duro, cattivo: «Martedì sono andata a trovarla, come faccio spessissimo, e me la sono trovata lì seduta in lacrime, nella saletta colloqui... Era agitatissima, piena di ematomi... Mi ha raccontato che il giorno prima, dopo avere litigato con una compagna di detenzione, sette agenti di custodia l'hanno presa in consegna e, indossando guanti di pelle, l'hanno picchiata selvaggiamente, salvo poi affidarla al personale dell'infermeria, che l'ha medicata e le ha somministrato un sedativo. Poi - prosegue la signora Monica - Natashja mi ha detto di essere stata chiusa anche in una cella di isolamento appositamente allagata con tre dita d'acqua, come forma di ulteriore punizione».
Ecchimosi, ematomi, morsi, ancorché presunti:è tutto contenuto in quella sua denuncia, che i carabinieri hanno immediatamente trasmesso via fax al comandante della penitenziaria del carcere di Vigevano:«Era stato proprio lui, il comandante, a dirmi che avrei potuto sporgere querela, che avrei potuto fare quello che ritenevo più giusto. E io l'ho fatto. D'altra parte mia figlia è malata, sofferente e mai, prima di martedì, le era capitato che qualcuno, in un carcere, le facesse del male».
Natashja ha vissuto una vita durissima. Afflitta da problemi di tossicodipendenza, da una sfilza di patologie spesso drammaticamente correlate all'uso di sostanze, era stata arrestata l'ultima volta a fine febbraio, dopo essere entrata con un coltello in mano in un bar di fianco al liceo Volta a Porta Torre. Il titolare l'aveva più o meno mandata a quel paese, costringendola ad andarsene via, a sparire, e probabilmente lei se la sarebbe anche cavata se, qualche minuto dopo, non avesse avuto la brutta idea di riprovarci, finendo così dritta in braccio ai carabinieri. Ragazza difficile, difficilissima. Di lei si occupò anche La Provincia nel 2008, raccogliendo sempre una richiesta d'aiuto della mamma, che chiedeva una mano per mettere fine alla lunga odissea della figlia tra monolocali fatiscenti (in un'occasione, scaldandosi con una candela in una casa senza riscaldamento aveva anche finito per ustionarsi), servizi sociali, sert, tribunali dei minori prima, tribunali ordinari poi. Qualcuno raccolse l'appello del giornale, si offrì di pagare le bollette e i conti arretrati per poter riottenere allacciamenti recisi per inadempienze, poi però sparì dalla circolazione senza versare un centesimo. «In quella sala colloqui - insiste oggi la mamma - ho chiesto che mia figlia ripetesse il suo racconto anche davanti al comandante delle guardie, che a onor del vero si è reso subito disponibile... Ci sono anche testimoni, le sue compagne, che si sono dette pronte a darci una mano». Ieri mattina la signora Monica è andata di nuovo in carcere: dice che al colloquio c'erano proprio loro, le vicine di cella di Natashja, tutte raccolte accanto a lei, e che erano lì per consegnare un foglio di carta compilato con grafia incerta eppure chiarissima: «C'erano i nomi di ciascuna e, accanto, le firme, messe come a voler confermare che le sarebbero state vicine, che avrebbero testimoniato, addirittura giurando su quel che avevano visto... Il foglio era sul tavolo ma un agente ce lo ha sfilato da sotto il naso dicendo che se avessero voluto consegnermelo, le detenute avrebbero dovuto inviarmelo per posta. Temo ceh non lo vedrò più. Natashja è mia figlia. E io, ora, ho paura per lei».
Stefano Ferrari
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