di Franco Minonzio
La mattina del 6 maggio 1527, Roma era avvolta da una nebbia fitta, inusuale per la stagione. Protette dai suoi banchi, le milizie imperiali del Conestabile di Borbone diedero l'assalto ad una città lasciata colpevolmente indifesa: increduli i romani assistettero alle prime atrocità di assalitori cui la foschia conferiva un aspetto quasi demoniaco. Fu il Sacco di Roma, che si protrasse insieme all'occupazione fino al febbraio 1528. Presto diedero l'assalto ai Palazzi Vaticani: Papa Clemente VII dovette frettolosamente riparare in Castel Sant'Angelo: a fargli scudo con il proprio corpo, per non esporre il il vistoso abito pontificio agli archibugieri, lo storico Paolo Giovio, che condivise con Clemente un assedio non dissimile da una detenzione. Il Sacco di Roma non fu un ghiribizzo della storia, ma lo sbocco coerente di più di trent'anni di guerre d'Italia, e più direttamente l'effetto della rottura degli equilibri politici e militari seguita alla vittoria di Pavia (24 febbraio 1525) degli imperiali di Carlo V sui francesi. La minaccia che tutta la penisola cadesse sottomessa al dominio imperiale, indusse i principali stati italiani a rompere gli indugi e ad accogliere l'invito della Francia a costituire la Lega di Cognac (22 maggio 1526), cui aderirono, oltre alla stessa, le repubbliche di Venezia, Genova e Firenze, il ducato di Milano e lo stato della Chiesa, che rovesciava in questo modo la tradizionale politica pontificia. Così quando nello stesso anno calarono in Italia, per unirsi agli imperiali, compagnie di lanzi tedeschi, presto rimaste senza soldo e senza guida, gli eventi presero a correre quasi guidati da una cieca necessità verso l'esito più disastroso: Roma violata dalle armate di un imperatore che si proclamava "cristianissimo", il Papa segregato, i luoghi di culto profanati, le reliquie - poco prima oggetto di un fiorente mercato - vilipese.
Due mesi dopo, Giovio ottiene un salvacondotto e viene espulso da Roma. Trova presto riparo a Ischia, dove presso il castello già Aragonese, attorno alla poetessa Vittoria Colonna, vedova del Pescara, si era stretta una piccola cerchia di letterati e filosofi, aristocratici e gentildonne. Qui approdato - scriverà - come uno dei «naufraghi sbalzati a riva dai furiosi flutti delle avverse tempeste della vita», Giovio è accolto con vivissimo affetto: ha perso ogni suo avere, ma ha salvato le "Historiae". Non del Sacco, ma dell'Italia prima del Sacco, e di quella - irreversibilmente mutata - che il Sacco avrebbe consegnato, ci rimane invece memoria nel "Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus", ovvero "Dialogo sugli uomini e le donne illustri del nostro tempo", sovente detto "Dialogo d'Ischia" che Giovio scrisse, su sollecitazione - a quanto dichiara - di Vittoria Colonna, tra il 1528 e il 1529, ambientandolo, però, nell'ultimo scorcio del 1527, rimasto inedito dopo un tentativo di pubblicazione nel 1530, e tale restato - eccetto il libro II - fino all'edizione nazionale del 1984: opera di natura storica più che retorica, affatto diversa dai modelli di dialogo umanistico correnti fra '400 e primo '500. Nella "fictio" del dialogo, in parte ricalcata su dati biografici certi, a Ischia Giovio incontra Alfonso d'Avalos, marchese del Vasto, generale dell'armata di Carlo V, cugino del Pescara, e di lì a poco Giovan Antonio Muscettola, senatore di Napoli. Con loro avvia e conduce, lungo l'arco temporale di tre giornate, una serrata riflessione che muove dalla percezione della gravità della frattura segnata dal Sacco, e coinvolge gli aspetti cruciali della crisi italiana. Ciascuno dei tre libri svolge la costellazione di motivi funzionale al tema costruendo una fitta rassegna di comandanti, intellettuali e gentildonne, secondo uno schema in ciascun libro variabile, di volta in volta diacronico, tematico, spaziale. Ma si presti attenzione al punto: sotto le parvenze di un affresco, si percepisce una idea forte, la coscienza della profondità della crisi italiana, l'avvertimento di quanto remote siano le origini storiche della fragilità del ceto aristocratico, che la fallimentare politica della "libertas Italiae" si è limitata ad accelerare, ma non ha certo determinato. É il primo scritto del '500 italiano a prendere atto, con lucidità, che si è definitivamente chiusa un'epoca. Del resto, i tre anni (1527-1530) che si aprono con il Sacco di Roma e si chiudono con l'assedio di Firenze, imprimono una svolta, accentuandone la perdita di autonomia reale, agli assetti politici d'Italia, determinandone per più di due secoli gli equilibri, e contribuendo a plasmare caratteri dell'Italia nazione che pesano ancor oggi: nessuna sorpresa che abbiano offerto, ad uno storico del valore di Giovio, un più acuto luogo di osservazione. Testo di complessità non riducibile ad una breve sintesi, il "Dialogus" mi forza a limitarmi a tre sole sottolineature. Percorre il libro I del "Dialogus" non la ricerca dell'ideale capitano di ventura, ma il tentativo di comprendere gli errori, tecnici e politici, e i processi sociali che hanno reso possibile il Sacco.. E così, alla luce del confronto con i Turchi, Giovio abbozza una diagnosi della tardo feudale società italiana, ossificata - diremmo oggi - nei meccanismi di selezione del ceto dirigente, che sempre antepone il lignaggio al valore. E mentre i Turchi favoriscono l'emergere di "uomini nuovi", i nostri, scrive Giovio, «quando siano riusciti, dopo lunghe fatiche, a vedersi riconoscere qualche apprezzamento del loro valore, proprio in quel momento si avvedono che si fa per loro difficile la lotta contro la Fortuna, e ad un contempo contro l'Invidia: al punto che, spessissimo, persone vili, con un successo miracoloso, colgono il frutto della fatica altrui, mentre i più coraggiosi, i migliori in guerra, sono schiacciati sotto il peso della vergogna e del disonore, ridotti al silenzio». E se il Sacco di Roma era stato, non meno, «la risposta terribile della storia ai sogni degli umanisti italiani» (Frances Yates), Giovio offre, nel libro II del "Dialogus", una istantanea di tale esaurirsi delle prospettive umanistiche, cui era venuta meno la capacità di "presa" sulla realtà: una cultura sovente scaduta in una mediocre imitazione, sì che Giovio può genialmente mostrare la perdita di egemonia delle lettere italiane contestuale all'emergere oltralpe di una nuova generazione di intellettuali. Ma è il libro III, dedicato ad una ricognizione dell'universo femminile delle corti e delle città italiane a comporre una vera e propria geografia della crisi: e l'energica difesa della dignità della donna e del rango che merita nella società non può eludere il dato di un arresto della duratura crescita di prestigio delle donne nelle corti italiane, sia pure con eccezioni del rilievo di Vittoria Colonna.
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