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Domenica 31 Ottobre 2010
Il racconto di Vitali/1
"Documenti, prego"
Iniziamo la pubblicazione a puntate di un racconto inedito di Andrea Vitali dal titolo «Documenti, prego». Si tratta di un lavoro insolito per lo scrittore bellanese, che ha abituato i suoi lettori a storie lievi e ammiccanti e qui si cimenta invece con un'atmosfera onirica e inquietante, che rivela una nuova dimensione della scrittura di questo autore lariano che continua a occupare con i suoi romanzi le zone più alte delle classifiche di vendita.
La mia casa ha un pezzetto di giardino davanti, il garage a lato. L'abitavo con mia moglie e mio figlio. Una casa come tante. Stavo tornando a casa.
Stavo tornando a casa dopo un viaggio di lavoro che mi aveva tenuto fuori città un paio di giorni. Era notte. Ero in macchina. Ero con altri due colleghi. Guidava uno dei due. Io ero seduto dietro. Ogni tanto mi facevo prendere dal sonno. Nei momenti di veglia guardavo le luci che sfilavano ai bordi dell'autostrada. Lampioni di strade secondarie, qualche rara finestra illuminata, le insegne delle fabbriche di mattoni e laterizi. La strada era diritta, il cielo era buio, c'erano poche stelle. Un buio rotto ogni tanto dalle luci intermittenti di qualche aereo. Nessuno parlava da un po'. Eravamo partiti allegri, entusiasti addirittura all'idea di tornare finalmente a casa.
Via via che i chilometri si erano accumulati le parole erano diminuite. Il tentativo di ascoltare la radio non aveva dato buoni frutti. Non c'erano che canzonette stupide, fastidiose. Dopo un radiogiornale che ci aveva dato notizie già note decidemmo di spegnere. Fumavamo, tutti. Ma anche le sigarette erano poche. L'autista ruppe il silenzio per dire che al primo autogrill si sarebbe fermato per fare scorta di sigarette e bere un caffè. Gli chiesi se volesse anche un cambio alla guida. Rifiutò. Disse che con un caffè in corpo sarebbe stato ben sveglio sino alla meta. L'altro, quello che stava seduto di fianco a lui, si scusò per non essersi proposto ma la sua miopia gli proibiva di guidare di notte. Era l'ora oltre la quale anche camion e autoarticolati ricominciano a viaggiare. Sfrecciavano sicuri. Belli, invincibili. Guardandoli venirci incontro, sull'altra corsia oppure superarci forse senza nemmeno vederci, non potevo fare a meno di pensare alle brandine dietro il posto di guida sulle quale i camionisti riposano o dormono nelle ore in cui per legge sono obbligati a stare fermi. Era un pensiero consolatorio. Il mondo chiuso di una cabina di camion. Chiudere la portiera sui rumori, ritirarsi in quel piccolo angolo. Era un pensiero infantile. Mi piaceva. Mi faceva pensare al letto di casa mia dove mi sarei coricato di lì a poco con la fantasia di essere un camionista che si sdraia sulla sua brandina. Dal finestrino abbassato di un paio di dita per cambiare l'aria della macchina entrava odore di gomme bruciate. C'erano sprazzi di nebbia ogni tanto, la terra che esalava il suo respiro. A una cert'ora di notte mi vengono sempre pensieri che ritengo poetici. Per stare sveglio cominciai a contare le insegne monche, quelle a cui mancava una lettera. Mi chiedevo quanto mancasse a un autogrill. I camion intanto continuavano a superarci, il nostro autista manteneva una velocità tranquilla e costante. Nella fantasia facevo la parte di quello che dorme nella brandina, in attesa del cambio. Mi addormentavo e mi risvegliavo continuamente. Quando chiesi dell'autogrill l'autista mi rispose una diecina di chilometri. Sulla destra sfilò un'azienda che forniva aria compressa. L'insegna, di un azzurro fantasmatico, recitava E.LUS. La O di Eolus, il dio dei venti, era spenta. Otto chilometri, disse l'autista. Avevo gli occhi chiusi ma non dormivo.
L'autogrill è una macchia di oro nel buio. Un paio di chilometri. Lì forse ritroveremo la voglia di parlare. L'autista imbocca la deviazione a una velocità troppo elevata, poi frena, chiede scusa. Parcheggiamo nello spiazzo riservato ai portatori di handicap. Scendiamo, entriamo: dal buio alla luce gli occhi ci fanno male. Tutti teniamo una mano sugli occhi finché non ci abituiamo.
Caffè per tutti?, chiede il miope.
Sto guardando fuori mentre rispondo sì. Vedo la macchina entrare. Parcheggiare dietro la nostra. È nera e ha fari alogeni. Fastidiosi come la luce dell'autogrill. Scendono in due.
Scesero in due. Poiché li stavo guardando non mi sfuggì che uno scese da dietro, dal posto che si vuole occupato dalle persone importanti. L'altro quindi era il suo autista. Il presunto autista era alto, giacca e cravatta, l'altro più piccolo indossava un cappotto e portava una specie di coppola. Solo dopo, quando entreranno nell'autogrill ne noterò i baffi appena accennati.
Entrarono quando la barista disse che i caffè erano pronti. Un caffè che non riuscirò a bere. Sulla porta dell'autogrill, l'autista cedette il passo al suo passeggero. Fu allora che vidi quei baffi, quando il labbro di quello si mosse per chiedere di chi fosse la macchina dietro la quale avevano parcheggiato.
Fui io a rispondere, gli altri due stavano bevendo il loro caffè.
Il portatore di handicap chi è?, chiese il baffetto.
La voce del baffetto è senza tempo. Sono sicuro che parla con la stessa intonazione la mattina appena sveglio e a quell'ora della notte. Non patisce stanchezze, è sicuro, la sua voce sicura di sé. La barista gli gira le spalle. Il mio caffè aspetta di essere bevuto. I pochi avventori seduti ai tavolini, camionisti che aspettano la scadenza del turno di riposo, non fanno una piega. L'autista è sulla porta dell'autogrill. Di lato a lui c'è lo scaffale dei libri, quelli del momento, scontati.
Fui ancora io a rispondere: nessuno.
Il baffetto lasciò correre qualche secondo dopo la mia risposta.
«Documenti, prego», disse poi.
Mentre cercavo il mio documento di identità notai che la barista si beveva il mio caffè. Senza zucchero. E che aveva un trucco pesante. La immaginai condannata a quei turni di notte, divorziata, con una casa sempre fredda e senza poltrone. Si nutriva di pizza o degli orribili panini dell'autogrill che ovviamente non pagava. Mentre divagavo sulla barista, i miei due compagni di viaggio avevano esibito i documenti. Il baffetto li aveva guardati appena e restituiti.
Un po' gualcito, gli tesi il mio.
Pronunciai qualche parola di scusa.
Il baffetto disse che ne aveva visti in condizioni peggiori.
«Ma in corso di validità», aggiunse.
Dissi solo cioè.
«Cioè?»
Voleva dire che il mio era scaduto. Più o meno da sei mesi.
«Venga con me», disse il baffetto.
Non è solo la voce del baffetto a non avere tempo. È il tempo stesso. Quell'ora notturna all'autogrill. I camionisti seduti che aspettano la fine del turno di riposo obbligatorio. I miei due compagni di viaggio che sembra non mi conoscano. La barista truccata che, una volta a casa, si attaccherà alla prima bottiglia sottomano.
Il baffetto ha appena finito di dire venga con me.
« Perché?», chiedo.
La risposta è: un semplice controllo.
Penso che non ci sia niente di semplice. Nemmeno il buio che c'è oltre le vetrine dell'autogrill. È un buio senza padroni. Un buio dove i cani abbaiano. Dove i treni passano. Dove alcuni muoiono nel sonno. Un buio dove si può sparire senza lasciare traccia. Vedo le mie tracce impresse sulle terre sconfinate che stanno fuori, in attesa di essere seminate.
«Andiamo», dice il baffetto.
Ma deve ripeterlo due volte.
Quando lo sento mi esce una domanda.
«Dove?»
La risposta non arriva. Nemmeno me l'aspettavo. Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato un momento così. Col buio di un autogrill fuori, un baffetto che mi mette la mano su un braccio per dirmi venga con me, uno dei miei due compagni di viaggio che mi ricordano la borsa coi documenti di lavoro, io che la recupero dal sedile posteriore della macchina sulla quale ho viaggiato sino a poco prima, il baffetto che la prende in consegna, io che chiedo come farò per tornare a casa, il baffetto che mi dice non si preoccupi, se sarà il caso ci penseremo noi, io che chiedo se sono in stato di arresto e il baffetto che mi risponde.
No, dice.
È un semplice controllo.
Allora chiedo dove andiamo.
Il baffetto risponde andiamo.
Ma parla col suo autista.
Le schiene dei miei compagni di viaggio sono la penultima immagine che registro prima di salire in macchina col baffetto. L'ultima è la faccia sorridente della barista. Sono sicuro che uno di loro due le ha appena raccontato una barzelletta. Sono pronto a scommettere che è stato il miope. Ne sa a migliaia. Poi però devo salire in macchina.
«Salga», disse il baffetto.
Poi subito aggiunse:
«Dia pure a me la borsa».
Obiettai che dentro c'erano cose mie, cose di lavoro.
Ribatté che potevo fidarmi.
«Non andrà perso nulla», disse.
Quando dice nulla i suoi occhi brillano.
Poi ordina all'autista di partire.
Ricordo bene la targa della macchina sulla quale ho viaggiato sino a poco prima.
EC 348 WZW.
Una targa di macchina può essere un ricordo doloroso, anche se è difficile spiegarlo.
Il silenzio viene comunemente inteso come assenza di parole, di dialogo. Il silenzio assoluto non esiste. Nessuno parlava dentro la macchina. L'autista ogni tanto sbottava in brevi colpi di tosse. Il baffetto respirava rumorosamente dal naso. Percorremmo all'incirca una ventina di chilometri. Poi il tic tac della freccia mi informò che stavamo uscendo dall'autostrada. Imboccammo l'uscita.
Pagamento con auto pass. La barriera che si alza, il suo segnale acustico, immagini e rumori notturni, familiari.
A una rotonda imboccammo la prima strada a destra. Il fondo era sconnesso, non c'era illuminazione. La striscia di mezzeria era appena visibile. Ai lati c'erano campi. Qualche rara luce di finestra in lontananza. L'autista stava saldamente a cavallo delle due corsie, temeva i fossi. Vedevo sagome di alberi. Ogni tanto piloni della linea elettrica. Viaggiammo così per un quarto d'ora credo. Mi era difficile mantenere il senso del tempo. Non avevo orologi, non li avevo mai portati. Comunque non più di un quarto d'ora, venti minuti al massimo. Fu allora che l'autista emise un colpo di tosse più forte degli altri e parlò. Le prime parole da quando ero salito su quella macchina. Disse che pensava di aver sbagliato strada. Che alla rotonda doveva forse prendere la seconda a destra. Che adesso c'erano due alternative, tornare indietro oppure proseguire allungando un po' il viaggio. Che saremmo arrivati comunque, solo con un po' di ritardo. Il baffetto aprì a sua volta la bocca per dirgli di andare avanti. Il ritardo non lo preoccupava. Anch'io parlai. Dissi al baffetto che a casa sarebbero stati in pensiero per me non vedendomi arrivare. Il baffetto mi rispose.
«Ogni cosa a suo tempo», disse.
L'autista aveva accelerato, la strada si era fatta larga, c'era qualche lampione in più che migliorava la visibilità. Non c'era niente che mi facesse intuire dove fossimo e tanto meno dove stessimo andando.
Lo chiesi al baffetto.
«Gliel'ho già detto, si tratta di un semplice controllo», rispose, poi sembrò addormentarsi. Mi venne il dubbio che tutto ciò non fosse altro che una messa in scena, una specie di trucco per disorientarmi, impedirmi di capire dove fossimo diretti.
È un dubbio che ho ancora. Anche se sono passati tanti anni da quella notte, da quel viaggio. È un dubbio che mi viene a trovare verso sera, quando un altro giorno è passato, quando è un giorno in meno verso il niente. Perché so perfettamente che da qui non uscirò mai più. Non ho niente da confessare infatti, la mia colpa è quella.
Sì, il baffetto si era proprio addormentato. Non faceva più rumori col naso. Emetteva un lieve sibilo con la bocca. La borsa coi miei documenti di lavoro era ai suoi piedi. Sapevo di avere degli appuntamenti per il giorno successivo ma non ricordavo più con chi, a che ora. Mi chinai per prenderla, volevo dare un'occhiata all'agenda. Nel momento in cui stavo per afferrarla la voce del baffetto mi bloccò.
Disse: «Lasci stare ».
Restai per un momento in quella posizione, la schiena piegata.
«Le verrà restituito tutto, dopo», aggiunse.
Quando disse "dopo" mi risollevai e mi sembrò che tutto fosse cambiato.
Illuminato dalle luci gialle delle gallerie il mondo fa paura. Le gallerie stesse sono una paura che non finirà mai, che non ti abbandonerà più. Il giallo è un colore malato. Nonostante i finestrini della macchina fossero chiusi, l'aria si impregnò di odore di gas di scarico.
Eravamo in un tunnel. Non c'erano altre auto oltre alla nostra.
L'autista disse: «Cinque minuti e ci siamo».
Il mondo, anche quello buio che avevo avuto sotto gli occhi sino a poco prima con le sagome dei suoi alberi, i piloni della linea elettrica, i campi sconfinati cominciò a mancarmi in quell'istante.
Avvertii la paura di aver dimenticato la strada di casa. Non sapevo che ore fossero e cosa mi aspettava.
«Bene», disse il baffetto.
E si stiracchiò.
Ebbi un brevissimo istante di felicità poco dopo. Se ci ripenso ora mi riesce difficile spiegarmelo. Anche perché in questo luogo così angusto dove mi trovo per adesso e per sempre non è facile mantenere fede a un pensiero solo. I pensieri si interrompono, uno aggredisce l'altro e ne viene fuori una confusione inestricabile. Parrebbe il contrario: l'isolamento, si dice, favorisce la concentrazione. Ma le mie idee migliori sono sempre nate all'aria aperta.(1.continua)
Andrea Vitali
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