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Lunedì 04 Luglio 2011
Antonia Arslan
Armeni, cancellati
La scrittrice pubblica un saggio sulla rivista "Vita e pensiero" per spiegare come il governo turvo di Ankara non voglia riconoscere il genocidio del 1915
Gli hanno mostrato, nelle loro case, pochi sparuti oggetti ritrovati: semplici ciotole di terracotta decorate con piccole croci, i pesi di una bilancia, qualche ingenuo tappeto con la data e una dedica in lettere armene. E infine lo hanno portato alle fosse comuni, dove giacciono confuse le ossa degli abitanti delle valli dell'Ararat massacrati in pochi giorni furiosi, che i pastori curdi, pur sapendo bene di fare cosa proibita, hanno contrassegnato in segno di pietà con pietre allineate, a simbolo e memoria di tutte quelle innocenti creature annientate e dimenticate.
Sulla montagna, la vita errabonda dei pochi pastori, la neve e il ghiaccio hanno conservato un po' meglio le tracce del popolo scomparso; ma sorprendentemente, nonostante l'accuratissima, ossessiva cancellazione di ogni resto della civiltà e della cultura armene (parla da solo un semplice dato: di circa 1500 chiese esistenti nel 1915, oggi ne restano pochissime, quasi tutte in rovina), in tutto l'immenso territorio anatolico ribollono - sotto la superficie uniformemente turchizzata - indizi memoriali, esili tracce, l'eco sottile di tradizioni perdute. Sono passati novantasei anni, ma la ferita della strage compiuta sanguina come se fosse appena avvenuta; e ciò che soprattutto pesa, nelle relazioni fra i due popoli e i due Stati, Turchia e Armenia, è l'ambiguo silenzio, il riduttivismo o l'esplicito negazionismo che nella repubblica di Turchia circonda ogni menzione della tragedia. E invece, come da un sottile manto di terra e di sassi affiorano quelle ossa frettolosamente nascoste nei crepacci dell'Ararat, così dovunque, sotto la terra d'Anatolia, giacciono i ricordi, sopravvive ancora la memoria di un popolo che qui ha avuto la sua patria per migliaia di anni.
Le scoperte imbarazzanti delle caverne sigillate che contengono scheletri accusatori (ne è riemersa una a Mardin il 17 ottobre 2006, immediatamente messa sotto sequestro dai militari), le pietre disperse - ma riconoscibilissime - delle centinaia di chiese che sono servite da cave di materiale da costruzione, l'eco delle campane ridotte al silenzio e del lamento lugubre delle turbe affamate che percorsero a piedi le grandi pianure nell'estate rovente del 1915, tutto questo continua a ossessionare sia i discendenti dei sopravvissuti armeni sia gli abitanti della Turchia attuale. I quali sanno benissimo quello che è successo nel 1915 e negli anni seguenti, fino all'incendio di Smirne del settembre 1922 e al definitivo scambio di popolazioni che ne seguì. Ma scriverne - e parlarne in pubblico - è proibito, è addirittura contro la legge.
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Perché non riesce alla Turchia, dopo quasi cent'anni, di fare i conti col suo passato attraverso un serio atto di contrizione, come la Germania dopo il 1945? Gli attori del dramma sono ormai tutti morti, il governo attuale non ha nessuna responsabilità, ovviamente. Perché allora continuare a negare, mi si chiede spesso, e in modo così ossessivo, così ridicolo? È una questione di orgoglio nazionale, come se un passato oscuramente colpevole potesse stingere sull'onorabilità del presente della nazione? Per riuscire a comprendere qualche cosa di questo vulnus fortissimo, che colpisce contemporaneamente la memoria collettiva degli armeni e la percezione di sé dei turchi, bisogna prima di tutto ricordare che i due popoli non sono sempre stati nemici: anzi, hanno dietro di sé una convivenza secolare sotto l'impero ottomano.
La minoranza armena era considerata fedele, anzi, la più fedele (sadyka), nel sistema dei millet che governava l'impero. I due popoli convivevano, in un mosaico di relazioni certo non sempre pacifiche, ma non prive di una certa tolleranza, alla luce di una circospetta convenienza reciproca. Turchi e armeni (nonché le altre minoranze: greci, ebrei e assiri o siriaci) si dividevano aree di competenza e zone di residenza: nessun turco si sarebbe dato la pena, per esempio, di fare l'interprete o il gioielliere, nessun armeno di tentare la carriera militare. Certi mestieri erano esercitati esclusivamente da un popolo: durante la persecuzione alcuni orologiai armeni si salvarono per questo. Nelle campagne, un villaggio era armeno, con la chiesa, le croci, il campanile, quello vicino turco, col suo bravo minareto; e nel villaggio armeno spesso l'unico turco era il gendarme, lo zaptié. Come è noto, fu il governo nazionalista dei Giovani Turchi che scatenò il genocidio all'inizio del 1915, subito dopo l'entrata dell'impero nella guerra mondiale. Ma è dopo la sconfitta, negli anni agitati del dopoguerra, che si delinea per gli armeni l'impossibilità del ritorno.
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Kemal fece tabula rasa di tutto ciò che lo aveva preceduto, e il suo Stato laico e occidentalizzante fu costruito sulla rimozione della tradizione imperiale. I legami col passato furono recisi, a cominciare dalla lingua, epurata, e dall'alfabeto, divenuto quello latino; l'identità nazionale venne costruita identificando il cittadino di Turchia coll'etnia turca. Delle minoranze cristiane, già quasi scomparse, rimaneva no sparuti gruppi in via di estinzione; della minoranza curda si tentò l'assimilazione (perfino nel nome: vennero ribattezzati "turchi della montagna"). Ma questo è un altro discorso, anche se purtroppo ancora attualissimo.
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Negli ultimi anni tuttavia la situazione sta cambiando, in modo lento ma costante. La battaglia si svolge all'interno della Turchia, senza esclusione di colpi, a volte in piena luce, ma molto più spesso in modi cifrati e tenuti sottotraccia; e la stampa occidentale non sembra percepirne tutta l'estensione. Si cita Orhan Pamuk, il premio Nobel che è stato processato per aver dichiarato a un giornale svizzero che nel 1915 erano morti "almeno un milione di armeni"; si è scritto molto, ovviamente, sull'assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink nel gennaio 2007. Ma le correnti revisioniste sotterranee che attraversano la società turca restano in gran parte sconosciute, e così i modi della reazione dell'establishment - non solo a Istanbul o Ankara, ma nel resto dell'immensa Anatolia - nel suo nervoso, ossessivo aggrapparsi, spesso con esiti infelici, alla vulgata ufficiale. La "questione armena", riemersa negli ultimi anni con grave fastidio dei governanti, è così diventata una vera cartina di tornasole per misurare il livello dei diritti civili nel Paese e per affrontare le oscure memorie del 1915. Una mostra di cartoline postali di prima del genocidio, scritte in armeno e raccolte con pazienza per molti anni, ha avuto un tale successo a Istanbul che è stata prolungata per mesi, dagli iniziali quindici giorni previsti. Nel libro Anneannem (in italiano Heranush mia nonna, 2007), Fethiye Èetin, un'avvocata molto nota di Istanbul, racconta di come ha scoperto che sua nonna era una delle bambine armene rapite dalle carovane dei deportati, convertite a forza e inserite in famiglie turche (venivano chiamate "i resti della spada"…). Se ne sono fatte sette edizioni in pochi mesi. E si comincia a sollevare il velo che copre altri gruppi di cittadini di etnia armena che furono convertiti a forza, ma che ancora oggi ricordano - in segreto - le loro origini e qualche preghiera cristiana.
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Che dire, in conclusione? Forse l'Armenia non si libererà mai dell'incubo turco, e del peso del ricordo straziante della terribile ingiustizia subita; ma neppure la Turchia può ormai credere di liberarsi facilmente del fantasma armeno. Eppure, io sono convinta che la verità a volte procede per vie carsiche ma sicure; e progredisce con lentezza, per riemergere poi improvvisamente in una luce abbagliante. Sul Los Angeles Times è uscito, il 23 aprile scorso, un paginone pubblicitario che invita a vacanze in Turchia. La data non è casuale, è il giorno prima del 24: e la comunità armena in California conta 780.000 persone. Ma anche l'immagine scelta non è casuale: una Madonna col Bambino, ieratica ma sorridente, scoperta in un monastero di Cappadocia. Il ministro della Cultura e Turismo turco, Ertuðrul Günay, ha detto che questo cattivante affresco «rappresenterà la Turchia all'estero». E negli ultimi mesi sono cominciati i restauri del sito di Ani, l'antica capitale d'Armenia, abbandonata da secoli. Possono certamente essere mezzucci, astuti inganni mediorientali; ma siccome le vie del Signore sono infinite, forse la strada apparentemente marginale del turismo riuscirà a scalfire davvero il granitico negazionismo di Stato che ancora pesa sull'anima turca.
( © Vita e Pensiero - Antonia Arslan, scrittrice, è l'autrice di «La masseria delle allodole», che tratta del genocidio armeno. Nel 2007 i fratelli Taviani ne hanno tratto il film omonimo)
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