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Martedì 20 Settembre 2011
L'inedito di Jacobson:
"A caccia di un soprabito"
Per gentile concessione della rivista "Satisfiction" pubblichiamo un estratto dall'inedito di Howard Jacobson che sarà pubblicato nel numero in uscita nelle libreria Feltrinelli il 29 settembre
Saul Bellow ha scritto da qualche parte che va benissimo che uno scrittore descriva i pensieri dei propri personaggi, ma se non descrive anche cosa indossano mentre pensano, vuol dire che non riesce a dar corpo all'intima essenza del suo personaggio.
Perciò mentre avverto l'urgenza di dire la mia su questioni impellenti come le zone interdette al volo, i tagli alle pensioni, o università inglesi finanziate da dittatori arabi, non sarei fedele alla mia vocazione di romanziere se non vi raccontassi cosa indosso o, per essere più precisi, cosa penso di indossare mentre tutti questi pensieri mi vorticano nella testa.
A breve dovrò partire per un tour di presentazioni in America, il che significa che nel giro di una dozzina di giorni dovrò salire e scendere da una dozzina di aerei e che per il mio viaggio avrò bisogno di qualcosa che non sono disposto a chiamare “parka”. Di solito, amo portare cappotti neri, lunghi e dal taglio morbido, perché mi conferiscono – così mi piace pensare – un'aria da filosofo stoico che in circostanze diverse avrebbe potuto essere un rabbino. Spinoza, tanto per intenderci. Ma per viaggiare in aereo sarebbe decisamente ingombrante. Bisogna toglierselo e rimetterlo quando si passano i controlli di sicurezza, poi una volta sull'aereo bisogna trovare una cappelliera dove ci sia abbastanza spazio per infilarlo, poi rimetterlo e toglierlo di nuovo… alla fine sei esausto. Meglio optare per qualcosa di leggero, ma anche di caldo. Leggero ma caldo, dico ai commessi che commettono l'errore di chiedermi se possono essermi d'aiuto. Nessuno può essermi d'aiuto.
Del centinaio di soprabiti che passo in rassegna, trenta sono imbottiti – credo di non dovervi spiegare per quale motivo non indosserei neanche morto qualcosa di imbottito (nemmeno la mia bara sarà imbottita) – trenta sono troppo lunghi e mi fanno assomigliare al colonnello Gheddafi, e quaranta sono troppo corti e mi fanno assomigliare al duo comico televisivo Ant & Dec.
«Non è il parka a essere corto» mi spiega una commessa, giocandosi ogni possibilità di piazzare l'articolo, perché io non sto cercando un parka. «È la sua giacca a essere troppo lunga». Mi porge una giacca più corta, perché la provi sotto il giaccone. Ovviamente mi rifiuto. Detesto le giacche corte. Un uomo con la giacca corta non sembrerà mai una persona seria, a meno che non sia un ballerino classico o un torero, e anche in questi due casi ho dei dubbi.
Quando ne trovo uno che è della lunghezza giusta, leggero come piace a me e caldo proprio come mi serve, non imbottito, senza cappuccio e con abbastanza tasche per contenere ciò che so di dover portare mentre serpeggio attraverso l'America, ma senza esagerare – con troppe tasche è facile che ti scambino per un fotografo dilettante o un appassionato di pesca – mi scontro con il più insormontabile dei tabù. Delle scritte. Cosa mai fa supporre ai produttori di abbigliamento casual che chi lo indossa è pronto a trasformarsi in una pubblicità vivente dei loro articoli? Se è disdicevole portare abiti con un logo in bella mostra sul posto di lavoro, non vedo perché non dovrebbe esserlo quando indossiamo un parka, salvo che io non voglio un parka. Spinoza non avrebbe mai messo una tuta da ginnastica imbottita con la scritta “Tommy Hilfiger”.
Comincio a chiedermi cosa indossi nel suo tempo libero Shami Chakrabarti, direttrice di Liberty, organizzazione in difesa dei diritti umani, e membro del gruppo dirigente della London School of Economics – oltre che la persona più moralista e ipocrita di tutta l'Inghilterra. Penso a lei per via del discutibile legame della London School of Economics con la famiglia del dittatore libico. Me la immagino in un parka con su ricamata la parola “Gheddafi”. Cerco di non essere ipercritico. Tutti siamo in debito verso qualcuno con cui non dovremmo. Pensate solo a tutta quella gente che fa la fila per un giorno intero per comprare una maglietta Abercrombie and Fitch. Abercrombie and Fitch non ha nulla a che fare con Gheddafi, naturalmente, ma il principio rimane lo stesso: siamo fatti a immagine di Dio e non dovremmo permettere a nessun altro di contrassegnarci con il suo marchio di fabbrica.
«Può sempre scucire il logo» mi suggerisce una signora da Fenwick, quando trovo esattamente quel che cerco ma con la scritta “Barbour International” cucita sul taschino in petto. «Non resteranno dei buchi?» domando. Non può mentirmi. «Probabilmente». La guardo e capisco che si sta chiedendo se è il caso di suggerire che i buchi potrebbero consentire una ventilazione migliore, ma nel frattempo io me ne sono già andato. Attraverso New Bond Street, senza trovare nulla; e poi mi dirigo verso Regent Street: magari, penso, posso fare un tentativo da Banana Republic, un negozio dove vendono delle camicie che non mi dispiacciono. Ma sulla vetrina campeggia una di quelle sciocche frasi che vorrebbero passare per perle di saggezza: “La vita è un viaggio. Esplorala con stile”. Così non entro.
Adesso tutto è un viaggio metaforico. Di recente ho realizzato un documentario sul libro della Genesi, nel corso del quale hanno cercato di farmi dire che il mio era un viaggio. «Non è così» mi sono impuntato. Alla fine, però, hanno avuto la loro vendetta, quando il programma ha vinto un premio e i giudici si sono congratulati con me per il mio viaggio.
Nel frattempo, il vero viaggio che devo fare si avvicina sempre di più e io ancora non ho un soprabito. Sto iniziando a ispezionare cosa indossa la gente che incrocio per strada. Questo mi riporta alla mente William Blake. «Mi aggiro per ogni strada a nolo, / presso un Tamigi a nolo che scorre». Solo che Blake osservava segni di prostrazione, segni di patimento, mentre io osservo semplicemente ciò che mi rifiuto di chiamare parka. E all'improvviso il mondo intero sembra indossarne uno. Adesso è diventato un impulso incontrollabile. Do una rapida occhiata a chiunque si trovi sulla mia strada. Se vedo un cappotto che mi piace in avvicinamento, mi faccio abbastanza vicino per controllare se è privo di logo. La gente mi guarda in modo strano. Perché li sto fissando dritto in petto?
Una mia ragazza di un tempo mi raccontò che un giorno si era sorpresa a fissare i pantaloni degli uomini per la strada e, una volta consapevole della cosa, non era più riuscita a evitarlo. «Penseranno che gli guardo l'uccello» disse. «E invece cosa guardi?» le chiesi. «L'uccello» rispose lei.
Il punto era, cercò di spiegarmi, che una volta che sai che c'è qualcosa che non devi guardare, non riesci più a guardare da nessun'altra parte. Shami Chakrabarti deve aver pensato l'esatto opposto degli abusi dei diritti umani in Libia.
E per me è lo stesso. Mi sono trasformato in un maniaco del non-parka. E ormai non mi limito più a guardare, cerco di rubare al volo qualche sensazione tattile, per valutare la qualità e lo spessore del tessuto. Se va avanti così, finirà che mi arrestano. E non mi aiuterà affatto spiegare che in realtà sono impegnato in un viaggio della mente, che sto riflettendo sulle zone interdette al volo, i tagli alle pensioni, Shami Chakrabarti e la strana verità che i più ipocriti e bigotti tra noi sono sempre quelli che hanno meno ragioni di esserlo.
(Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra)
© Howard Jacobson
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