Nella lettera d'intenti inviata alla Commissione europea, il presidente Berlusconi promette dismissioni: privatizzare parte del patrimonio pubblico è la politica del buon padre di famiglia, in un momento nel quale l'Europa e i mercati ci chiedono di ridurre il nostro gigantesco debito pubblico (1900 miliardi). Quale è però l'impegno quantificato dal governo? Cinque miliardi l'anno, per tre anni, con un totale di quindici miliardi.
Quindici miliardi, contro 1900 miliardi di debito. In questa stratosferica sproporzione c'è, purtroppo, un segnale inquietante circa la serietà del proponimento. Segnale ancor più preoccupante, beninteso, tenendo conto che il ministro dell'Economia ha fatto sapere mezzo stampa di ritenere le promesse del governo di cui fa parte sostanzialmente delle fanfaronate che non verranno mantenute. Ma mentre aumentare la flessibilità in uscita del mercato del lavoro sarebbe un passo importante per la crescita, cinque miliardi l'anno di dismissioni non significano che il governo Berlusconi farà le privatizzazioni. Significano l'esatto contrario: che non si faranno le privatizzazioni. Il governo parla di dismettere soltanto immobili. Il patrimonio immobiliare dello Stato "alienabile" vale, secondo le stime più recenti, 400 miliardi. Se ne venderebbe, dunque meno dei 5%, in tre anni. L'obiettivo di cassa ci dice cosa non verrà privatizzato. Non verrà privatizzato nulla che valga più di 5 miliardi. Quindi, nessuna grande impresa pubblica: non Trenitalia, non le Poste, non la Rai, nemmeno l'Inail, che si stima "prezzabile" a fra i 5 e i 6 miliardi. Del resto, il governo parla a chiare lettere di vendere case, ma non di vendere aziende.
Questo in ragione del fatto che, a bassi valore di mercato, si pensa sia controproducente metter mano alla vendita delle partecipate. Purtroppo, il prezzo "giusto" per le privatizzazioni non c'è mai. Nei periodi "di magra" non si vende perché si incasserebbe troppo poco. Nei periodi "di grassa" non si vende perché le aziende statali danno dividendi. Non privatizzi oggi, non privatizzi domani, il risultato è che interi settori imprenditoriali subiscono ancora l'influenza indebita di "concorrenti più uguali degli altri", perché posseduti direttamente o indirettamente dallo Stato. Lo status preferenziale, sul piano legale, che di norma si accompagna alla proprietà pubblica ha l'effetto di schermare quelle aziende dalla disciplina del mercato, con esiti nefasti per i consumatori. Vendere le imprese di Stato sarebbe, oggi, assieme il modo giusto per fare cassa e per contribuire alla crescita dell'economia, creando nuovi spazi per l'iniziativa economica privata. Perché non si va in quella direzione, anche in una situazione tanto drammatica come l'attuale? La risposta è desolante: perché ci sono potenti gruppi d'interessi che lo impediscono.
Con un po' di populismo, non è difficile ricordare chi sarebbe l'operatore privato che più avrebbe da temere da una Rai privata e competitiva. Ma oltre al conflitto d'interessi più evidente e più noto, ve ne sono altri, meno visibili ma altrettanto gravi. I manager delle aziende statali hanno un rapporto privilegiato con la politica, e vi fanno ricorso per evitare ipotesi di dismissioni. Le medesime aziende fanno parte delle associazioni datoriali, che nelle loro proposte al governo - comprensibilmente - non possono fare menzione della possibile privatizzazione dei loro soci. Il management attuale teme l'arrivo di nuovi azionisti, perché essi potrebbero decidere di rivoluzionare una certa impresa a cominciare dall'amministratore delegato. Oggi, quelli che annodano i "lacci e lacciuoli" hanno nome e cognome. E non vogliono mollare la presa.
Alberto Mingardi
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