Dall'Unità d'Italia
alla conquista dell'alfabeto

Dal periodico "Vita e Pensiero", pubblichiamo l'anticipazione di uno stralcio del saggio di Giorgio Chiosso in merito alla storia dell'alfabetizzazione

Dal periodico "Vita e Pensiero", pubblichiamo l'anticipazione di uno stralcio del saggio di Giorgio Chiosso dal titolo "L'Italia unite, alla conquista dell'alfabeto". Chiosso insegna Pedagogia generale all'università di Torino, dove dirige il dipartimento di Scienze dell'educazione e della formazione.

di Giorgio Chiosso
Pur tra gravi difficoltà, fin dal 1861 cominciò una lotta convinta, più pragmatica che ideologica, contro l'ignoranza.
Dall'iniziale peso dato dallo Stato ai licei, alla crescente cura per la scuola primaria e per la figura centrale della “signora maestra”.
È impossibile dissociare la storia dell'Italia dalla graduale conquista della capacità di leggere, scrivere e far di conto da parte di quote sempre più ampie di italiani. Un processo che è durato a lungo fino all'abbattimento dell'analfabetismo negli anni Cinquanta del secolo scorso. Abituati a considerare la scuola un fatto scontato nella vita quotidiana attuale, non sempre le riconosciamo il merito di aver concorso in modo significativo alla costruzione dell'edificio nazionale.
Al momento dell'Unità soltanto un italiano su quattro era censito come “alfabeta” (6 milioni su una popolazione di poco meno di 24 milioni abitanti). Gli italofoni, poi, erano una assoluta minoranza, in prevalenza circoscritta nelle regioni dell'Italia centrale (gli studiosi li hanno stimati non più del 10%). I bambini in età scolare, 6-12 anni, iscritti alle scuole elementari rappresentavano solo il 40% del totale.
Forti differenze segnavano le varie regioni del Paese: a fronte del 90% degli scolari piemontesi stavano appena il 14% di coetanei siciliani, il 17% di quelli lucani e il 22% di quelli calabresi. Dati che ponevano l'Italia a grande distanza non solo dalla Prussia e dall'Inghilterra (le nazioni a maggior tasso di alfabeti nell'Europa di metà Ottocento), ma anche dalla Francia e dall'impero asburgico, alla pari con la Spagna e poco sopra all'impero russo.
Giorgio Chiosso insegna Pedagogia generale e Storia dell'educazione nell'Università di Torino, dove dirige il Dipartimento di Scienze dell'educazione e della formazione.
In precedenza ha insegnato nelle Università di Lecce, Padova e Cattolica a Milano. È autore di importanti studi sulla scuola italiana tra Otto e Novecento e la questione dell'identità nazionale. Recentemente ha pubblicato Alfabeti d'Italia. La lotta contro l'ignoranza nell'Italia unita

Questi dati erano inoltre condizionati da numerosi fattori negativi: non tutti gli iscritti frequentavano regolarmente le lezioni; le scuole si svuotavano tra marzo e aprile e cioè alla ripresa dell'attività agricola; gli alunni erano in larga parte maschi e l'analfabetismo era più frequente tra le bambine; l'uso dei libri di testo era assai aleatorio; la preparazione dei maestri lasciava in genere piuttosto a desiderare.
Soltanto in Piemonte, nel Lombardo Veneto e in Toscana c'era un inizio di scuola moderna con la presenza abbastanza regolare di scuole femminili, un'editoria specializzata in testi per le scuole e la preparazione dei maestri attraverso apposite scuole. In molte altre realtà, non solo meridionali, le bambine andavano sì a scuola, ma erano avviate, su richiesta degli stessi genitori, più ai lavori domestici che all'apprendimento dell'alfabeto. Soltanto dopo qualche decennio di scuola unitaria anche le classi femminili si organizzarono con modalità didattiche analoghe a quelle dei maschi.
Alla parte più illuminata della classe dirigente l'analfabetismo appariva un macigno che pesava sul destino dell'Italia. Ma in essa c'era anche la piena consapevolezza delle difficoltà che occorreva superare per debellare l'ignoranza: l'arretratezza dell'economia, la povertà delle popolazioni, gli squilibri territoriali in fatto di distribuzione delle scuole, l'indifferenza – se non proprio l'ostilità – di ampie quote di genitori, le resistenze di una parte della stessa classe dirigente timorosa che l'eccessiva familiarità con il leggere, lo scrivere e il far di conto potesse scatenare conseguenze sociali imprevedibili, la priorità, infine, assegnata allo sviluppo della scuola secondaria.
I tanti e complessi problemi dell'Italia secondo ottocentesca unita non impedirono che in meno di 50 anni si compisse un decisivo passo verso l'alfabetismo. I dati statistici documentano – è vero – persistenti e importanti quote di persone analfabete (al censimento del 1901 erano ancora circa il 50% della popolazione e sacche di analfabetismo diffuso si prolungarono anche molto oltre) e una frequenza delle classi elementari ancora a basso regime (a fine secolo stimata intorno al 70% degli alunni obbligati). Ma ciò che conta è il fatto che nei primi decenni dell'Italia unita mutò in modo irreversibile la percezione del fenomeno.
Il saper leggere, scrivere e conteggiare uscirono dalla dimensione privata e divennero una questione di vita civile. Queste abilità furono percepite sempre più nettamente come condizione primaria per il progresso sociale ed economico. A fine secolo alla voce “analfabeta” del Dizionario illustrato di pedagogia il compilatore non esitava a misurare i livelli di civiltà delle nazioni dal rapporto tra alfabeti e analfabeti e dalla diffusione generalizzata dell'istruzione obbligatoria. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, lo Stato entrò piuttosto tardi nella campagna contro l'ignoranza e la società civile svolse in questo ambito un ruolo di primo piano. Larga parte del ceto politico liberale antepose infatti al problema dell'istruzione popolare la creazione di un buon sistema di scuole secondarie, in particolare di quelle classiche.
Diffusa era la preoccupazione di assicurare ai giovani rampolli della borghesia liberale una formazione in linea con i valori del Risorgimento laico e contestuale era la diffidenza verso le scuole confessionali che, invece, continuavano a godere del consenso maggioritario delle famiglie.
Soltanto nell'ultimo quarto del secolo la questione dell'istruzione elementare balzò in primo piano per iniziativa di una triade di ministri che ressero il Ministero per circa un ventennio: Francesco De Sanctis e soprattutto Michele Coppino e Guido Baccelli. Pur di cultura e formazioni diverse, li teneva insieme la convinzione che lo Stato non era solo il regolatore della vita sociale, ma anche l'espressione di una volontà etica e dunque disponeva di una propria pedagogia.
Questo principio politico si tradusse in una serie di conseguenze.
Viene severamente sancito l'obbligo di istruzione, si moltiplicano le scuole per la formazione dei maestri, lo scenario si arricchisce della figura della “signora maestra”, i Comuni sono incalzati a rispettare le norme relative alla salubrità degli ambienti e degli arredi.
Al maestro si chiede di non solo di alfabetizzare, ma di formare i ceti subalterni alla fedeltà alla monarchia e all'ordine sociale costituito (nel 1877 viene introdotto l'insegnamento dei “Diritti e doveri del cittadino”); l'istruzione va graduata per evitare che si alterino gli equilibri della società liberale il cui ordine era immaginato come quello di una perfetta e ben oliata organizzazione di tipo gerarchico; la gestione delle scuole va tenuta vicino alle popolazioni e assegnata, dunque, ai Comuni.
Il rilievo sociale attribuito alla scuola con la relativa condanna dell'ignoranza emerge dalla diffusione di una letteratura che pone al centro la figura del maestro e della maestra, del professore di ginnastica e del regio ispettore. Lunga è la lista degli scrittori che ambientano nella scuola romanzi, novelle, racconti: da Edmondo De Amicis a Matilde Serao, da Renato Fucini a Giovanni Verga, a Ferdinando Martini e a una folta schiera di autori oggi dimenticati, ma che ai loro tempi ebbero una qualche notorietà: Federico Maranzana, Ferdinando Ranuzzi, Bernardo Chiara e altri ancora. Storie che ci restituiscono le generosità dei maestri, la speranza di poter chiudere le prigioni perché si aprono le scuole, le vicende di coraggiose maestre, l'importanza della ginnastica e dell'igiene, insomma uno spaccato realistico – per quanto la realtà sia romanzata – di quella che era la scuola del tempo.
Tra i ricorrenti motivi che sono proposti dai libri di lettura scolastici si trova quello del bambino che marina la scuola, non fa i compiti, resta ignorante, è irretito da compagni mascalzoni, frequenta l'osteria, si dedica ad attività illecite e finisce puntualmente in carcere.
Oppure quello del padre analfabeta che ostacola gli studi del figlio che tuttavia non si arrende e, anzi, riesce a convincere il genitore a frequentare una scuola serale.
Fu soltanto nel 1911, con la legge che provvide al passaggio allo Stato delle scuole elementari (escluse quelle dei grandi Comuni e dei capoluoghi di provincia, statizzate solo nel 1934), che lo Stato entrò direttamente nella gestione dell'istruzione primaria. Il fascismo avrebbe in seguito rafforzato il potere dello Stato sulla scuola fino al punto di prevedere un unico libro di testo nelle elementari.
Per molto tempo è prevalsa nella storiografia la tesi secondo cui i processi di modernizzazione ottocentesca si sarebbero sviluppati all'insegna di una sola prevalente fede politica e che altre parti in causa avrebbero soltanto giocato di rimessa se non addirittura di retroguardia.
Oggi questa ricostruzione lineare ha lasciato spazio ad analisi più articolate, meno ideologiche, sostenute da analisi che hanno dimostrato come sia improprio ricondurre a un unico sistema di valori lo svolgersi delle complesse dinamiche intorno alle quali si costruì la modernità italiana.
La lotta contro l'ignoranza ne è un'esemplare conferma. Chi si inoltra nella ricognizione dei luoghi e dei protagonisti di quella battaglia scopre che la conquista dell'alfabeto ebbe caratteristiche plurali.
La battaglia contro l'ignoranza vide ciascun attore, con la sua fede politica e religiosa, contribuire per la sua parte. È come se i diversi soggetti sociali avessero concordato di dare vita a una grande alleanza per vincere insieme l'ignoranza. Questo vale per i luoghi come per le persone. Se la scuola occupò la scena principale, non vanno dimenticati gli altri numerosi luoghi di alfabetizzazione: le società di mutuo soccorso degli operai, le scuole aperte presso le caserme per i soldati analfabeti, le iniziative intraprese negli oratori e nelle parrocchie e quelle promosse nel mondo contadino dalla filantropia agraria, le battaglie a favore dell'igiene e della cura della salute sostenute dai medici condotti. Una molteplicità capillare di iniziative, ciascuna specificamente messa a punto per rispondere a una precisa categoria di persone.
E altrettanto numerosi furono i protagonisti che occuparono i diversi scenari: imprenditori illuminati, maestri e maestre attivi anche nelle scuole serali e festive per adulti, preti e suore che scelsero l'apostolato educativo come il luogo privilegiato della loro attività, uomini politici e pubblici amministratori che – ricorrendo a un'espressione più di oggi che di allora – guardarono alla scuola come un investimento e non come a una spesa passiva, scrittori e giornalisti impegnati nella produzione di quella letteratura popolare che andò crescendo in misura direttamente proporzionale all'aumento delle persone capaci di leggere.
A vederla a ritroso – e senza negare le profonde differenze che spesso animavano i protagonisti della lotta contro l'ignoranza – la conquista dell'alfabeto fu l'esito di una realtà più pragmatica che ideologica la cui comune bussola è da individuare nella convinzione che nell'Italia del futuro non fosse più tollerabile l'italiano analfabeta

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