Cultura e Spettacoli
Domenica 27 Novembre 2011
Con le streghe del Lario
in volo verso il sabba
E' a sfondo "noir" l'immaginario delle genti del lago, come spiega Basilio Luoni - commediografo e scrittore - proponendo alcune storie di "strie" ambientate a Lezzeno (con incursioni a Torno).
di Basilio Luoni
Quando si leggono le raccolte di storie "locali" (fiabe e leggende di una regione o di un paese) viene spesso da pensare che l'immaginario popolare - ogni immaginario popolare- abbia un suo inconfondibile colore, una sua tinta che fa da sfondo. Può essere l'ocra del deserto, il blu profondo del mare, il verde cupo della foresta, o le tonalità contrastanti dell'orto, distribuite sapientemente come in un tappeto orientale, con l'azzurro delle cipolle, il violetto dei carciofi, il bianco dei cavoli in gara col rosso delle melagrane e dei pomodori, il giallo dorato delle pere e quello aranciato dei cachi. L'immaginario del lago, e in particolar modo l'immaginario lezzenese,che è quello che conosco meno superficialmente, ha come sfondo il nero.
Non è un nero proprio uniforme,si riesce a distinguervi alcune gradazioni: il nero vellutato del cielo, quello fuligginoso dei monti, quello catramoso delle acque lacustri dove i monti sembrano sprofondare e non sorgerne, come sosteneva il Manzoni. Vuol dire che i personaggi e le storie che ne fanno parte hanno scelto una volta per tutte, come loro sfera d'azione, la notte. Una notte particolarmente greve e lunga,una notte invernale si direbbe, di quelle senza luna e per soprammercato nuvolose, tanto da cancellare ogni stella in cielo. Neppure l'ultima epopea locale si sottrae alla regola. Parlo dell'epopea dei contrabbandieri, ormai celebrata e delibata fino alla nausea: barche e motoscafi ridotti a sagome scure a malapena distinguibili nel buio e una nuova genia di esseri ambigui - per metà umani, nella parte inferiore, e per metà bricolle - impegnati in laboriose e silenziose trasferte lungo sentieri invisibili quanto il groviglio dei visceri che teniamo chiusi in pancia.
La notte delle storie più antiche ospita due categorie di personaggi: le streghe e i defunti. Lezzeno era rinomato, sul lago, come fertile patria di streghe, sulle quali esisteva tutto un repertorio di leggende. Della più famosa di queste esiste anche una versione tornasca, che è stata sceneggiata negli anni Ottanta del secolo scorso dal bravo poeta dialettale che fu Paolo Elia Sala.
Il protagonista è un barcaiolo (nella versione tornasca ha anche un nome: Fendin, diminutivo di Defendente), il quale si accorge che di notte qualcuno gli usa la barca, la gondola, sorella minore del comballo. Per scoprire chi sia, il barcaiolo si nasconde a poppa, sotto un mucchio di sacchi. A buio, vede salire a bordo tre streghe (sette, a Torno) che ordinano alla barca di partire. «Va' per vuna, va' per dò, va' per tre», ma naturalmente la barca non parte. Provano allora a ordinare: «Va' per quattro» e la barca finalmente si alza in volo. Approdano in Egitto (o nelle Indie), si uniscono al sabba e lasciano la barca incustodita, ragion per cui il barcaiolo può dare un'occhiata intorno e riempirsi le tasche e la camicia di pietre preziose sparse fra i sassi della riva (a Lezzeno, più modestamente, di qualche rametto di corallo). Al ritorno le streghe tornasche, superficiali, non fanno indagini, quelle lezzenesi, più puntigliose, sorprendono invece il quarto passeggero, che giura di tenere il segreto sull'avventura notturna e però, a scanso di brutte sorprese, fa benedire la barca e regala il corallo alla Madonna dei Ceppi.
Anche il protagonista di un'altra storia (ne conosco soltanto la versione lezzenese) riesce a cavarsela. È la notte di Natale, quella in cui si ha meno paura ad affrontare il buio. E infatti un uomo di Villa accetta l'invito a mangiar la trippa a Pescaù (le due frazioni sono distanti tra loro due kilometri e la trippa è ancor oggi il piatto classico della cena di Natale). Quando rincasa, proprio sul ponte della valle di Villa fa l'incontro che avrebbe voluto evitare: tre streghe lo minacciano di morte. Spaventato, racconta l'accaduto al parroco, che gli suggerisce di tornare al luogo dell'incontro indossando una maglia di lana benedetta. Qualche sera dopo, fattosi coraggio, eccolo sul ponte di nuovo ed ecco le streghe. Una ordina all'altra: «Soltegh adoss», ma l'altra si sente impedita: «Non poss, el gh'ha la lona di Tempor adoss». L'apologo nasconde un consiglio: far benedire la lana durante le Tempora quaresimali o il giorno di San Marco, così che gli indumenti di lana benedetta proteggano dal male. La maglia di lana veniva forse ad acquisire i poteri "buoni" di cui nel '500 si diceva fosse dotata la "camicia" dei benandanti, gli stregoni "bianchi", nati «involti nella membrana amniotica» che «protegge i soldati dai colpi, allontana i nemici, aiuta persino gli avvocati a vincere le cause» (C.Ginzburg ). La lana non più, ma fino a metà del '900, ancora si portava a benedire in chiesa, il giorno di San Marco, la "semente" dei bachi da seta.
Ma erano probabilmente più numerose le storie che finivano male. Contenevano un monito implicito, naturalmente: attenti ai trabocchetti del Maligno e dei suoi satelliti, streghe e stregoni, attenti a quel che può acquattarsi nel buio. Una di tali storie è lezzenese fin nella toponomastica. Racconta che una sera d'inverno due amici sono a veglia nella stalla. Progettano di andare a far legna nei boschi, il giorno dopo, e uno prega l'altro, più mattiniero, di chiamarlo: «Dumatina, quond te vee insù, domm una vuus». Nella stalla però, sotto il mucchio di foglie secche, è nascosto uno striozz che ha sentito tutto. All'alba, quello che potremmo chiamare il Dormiglione sente sotto casa la voce dell'amico che gli dice: «Io vado avanti, ma ti aspetto sul sagrato della Madonna dei Ceppi». Si alza, allora, si veste, si avvia. Arriva alla Madonna dei Ceppi ma lo spiazzo è deserto. Perciò chiama: «O cumpaa, speciom! (O compare, aspettami!)». E la voce dell'altro, da mezza costa: «Te speci su a Carpich».
Il dormiglione arriva a Carpich, ma neppure lì trova l'amico. Richiama: «O cumpaa, speciom!» e di nuovo ode la voce dell'altro: «Te speci su a Bress». La delusione si ripete a Bress, e più sopra, e più sopra ancora, finchè l'uomo non giunge a destinazione, in Val de Giuuf. E lì ad atttenderlo non c'è il compare ma lo stregone che lo costringe a fare testamento. In buona lingua italiana gli impone: «Lascia i tuoi occhi ai ciechi, lascia la tua lingua ai muti, lascia le tue orecchie ai sordi... », il poveretto non aveva finito di ripetere quelle parole che lo stregone, con una violenta pedata nel didietro, lo fece volare nel burrone.
La fiaba seguente, anche se non contiene toponimi lezzenesi, fa immaginare un territorio scosceso come quello lezzenese, dove alberi, case, persone, oggetti sembrano sempre in precario equilibrio sull'orlo di un precipizio. Una ragazzina (una tusetta) di nome Maria deve portare le mucche nei pascoli alti sopra il paese, come una volta si faceva d'estate. Chiede alla madre qualcosa da mangiare e quella le dà una formaggella, raccomandandole di non mangiarla tutta. Al pascolo Maria si sedette per mangiare, ma la formaggella le sfugge di mano e comincia a rotolare giù giù lungo il prato in discesa. Lei disperata la rincorre fino a un boschetto dov'è acquattata una strega che le chiede cosa stia inseguendo. La ragazzina «M'è scapaa la furmagella». La strega: «L'ho truvada mì. Poeudom mangiala insema, un poo per uu (un po' ciascuno). Un bucunii la Maria, un bucunii la stria...».
Si mangiano tutto il formaggio e la stria raccomanda alla bambina il segreto: «se no, poca bela te la passet (non la passi liscia )».
A sera, Maria torna a casa e la madre le dice di andare a letto a riposare. Lei protesta che ha fame e prima vuole mangiare. La madre si stupisce, le ha pur dato tutta una formaggella, e la costringe a rivelare quel che è successo. Al momento di coricarsi nel buio della camera la bambina si fa il segno della croce dicendo: Padre, Figlio, Spirito Santo e così sia, e da sotto il letto risponde la vocina fessa della strega: «O Maria, t 'hee vorsuu (hai voluto) fa' la spia! Adess una gomba l'è tua e una gomba l'è mia!».
Finale in dissolvenza ma è chiaro quel che accadrà.
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