In pochi giorni - stando a un sondaggio pubblicato da Repubblica - Monti avrebbe perso il 4 per cento dei consensi degli italiani, passando dal 62 al 58 per cento. Se si prende per buono un dato di questo genere, registrato nel pieno imperversare della stangata annunciata, confermata, ribadita e inasprita, bisogna concludere che il governo dei professori sta riscuotendo presso gli elettori un successo imprevedibile e strabiliante.
È, questo così striminzito calo di popolarità, la dimostrazione che la gente si rende conto di trovarsi sull'orlo di un baratro e continua dunque a mostrarsi disposta anche ai sacrifici più pesanti per evitare di finirci dentro, soprattutto se questi sacrifici sono imposti da un esecutivo che adotta uno stile sobrio, riflessivo e attento a distribuire i carichi il più equamente possibile. La cosa, naturalmente, non può che infastidire i partiti quelli della maggioranza non meno che quelli dell'opposizione), che in questi giorni hanno messo in campo tutto il bolso repertorio dei vecchi riti.
A prescindere dalle buffonate in aula della Lega, gli stessi gruppi che dicono di sostenere il governo, e che l'hanno fatto con il voto di fiducia alla Camera, in realtà più che in preda al mal di pancia paiono in preda a una profonda delusione e un'incontenibile amarezza per i risultati che Monti è in procinto di concretizzare. E questo il vero motivo per cui c'è stato chi ha osservato con sufficienza che per una manovra come questa non c'era bisogno di un governo di professori, attirandosi l'ovvia replica del presidente del Consiglio, che ha chiesto all'aula con finta mitezza: «E perché non l'avete fatta voi?».
L'interrogativo, al quale evidentemente nessuno sembra ansioso di rispondere, è la migliore risposta anche alle critiche che pure possono essere mosse sensatamente alle misure proposte dal governo. Ad esempio la eccessiva timidezza - un dato di fatto - in tema di liberalizzazioni. Perché chi le giudica oggi troppo limitate non ne ha fatte di più ampie e coraggiose quando stava al governo? Perché - ha avuto buon gioco Monti a rilevare - è stato necessario un governo di tecnici per superare le paralizzanti contrapposizioni che impedivano di toccare il meccanismo previdenziale, o di intervenire su tante altre questioni di enorme rilevanza per il Paese? L'esecutivo dei professori è troppo "tecnicamente" lontano dalla polemica per avanzare l'ipotesi che la risposta sia nel fatto che agli interessi di tutti si sono preferiti gli interessi di bottega elettorale di questa o di quella formazione, ma l'ipotesi è tutt'altro che peregrina.
Monti, difficilmente attaccabile su questi fronti agli occhi di un'opinione pubblica che sembra decisa a presentare ai partiti tutti i conti arretrati, è tuttavia come un ciclista, in equilibrio finché procede e condannato a cadere se si ferma. Fatto il possibile sul versante dei conti pubblici, ora è indispensabile occuparsi con la stessa decisione dello sviluppo.
Per il momento il ministro Passera certifica che l'Italia è in recessione, come sostiene Confindustria, ma la convinzione che ce la possiamo fare ad uscirne, da sola, non basta. E mentre, avendo fatto quanto era possibile, aspettiamo tutti che lo spread scenda e che le Borse salgano, forse è proprio questo il momento di incominciare a guardare - con lo stesso rigore e la stessa determinazione - dentro alle fabbriche, nei meccanismi dello sviluppo e dell'occupazione.
Antonio Marino
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