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Lunedì 04 Febbraio 2013
Leopardi, Rimbaud e gli altri
Quei cinepoeti maledetti
Martone gira un film sull'autore dell'Infinito, ma i precedenti su Campana e la Plath non sono favorevoli. Non esistono due arti più affini di cinema e poesia, come insegnano Pasolini e Buñuel. Poche però le trasposizioni riuscite
In attesa che a Recanati si cominci a (ri)girare la vita di un personaggio che il regista giustamente definisce «tutt'altro che triste», e che anche per questa intensità di sentimenti sottesa ai suoi versi ha catturato l'inconscio di generazioni di italiani ancor più del "padre della patria" Dante, vale la pena ripercorrere per sommi capi, in maniera più poetica che sistematica (anche per ragioni di spazio), l'intenso rapporto tra cinema e poesia.
Buñuel e Pasolini
«Il cinema è strumento di poesia con tutto ciò che questa parola può contenere di significato liberatorio, di sovversione, di soglia attraverso cui si accede al mondo meraviglioso del subconscio», scrisse Luis Buñuel, maestro del grande schermo, cresciuto non a caso nella stessa università di poeti come Rafael Alberti e Federico Garcia Lorca.
Ma l'affinità tra versi e sequenze è anche un fatto tecnico, di "montaggio". Rende bene l'idea un poeta/regista come Pier Paolo Pasolini in "Poesia in forma di rosa": «Con montaggio illogico, si vedrà / poi, lui che cammina in una periferia / ancora più remota: siepi / gocciolanti, muretti di vecchi / casolari... e, un improvviso spazio / sereno, quasi primaverile, magari / con la luna su rappacificate nuvole: / in mezzo a quell'odoroso spazio, / quel vuoto di libertà campestre, / ecco cani che abbaiano, voci festose / di ragazzi - quelli del Mille, / o del futuro più lontano. Un piccolo / colpo di pistola. E "Fine"...».
L'idillio tra le due arti comincia, invece, a scricchiolare quando una tenta di raccontare l'altra. Hanno una lunga tradizione i biopic sui poeti. Il primo è ancora tra i più riusciti: "La famiglia Barrett" di Sidney Franklin del 1934, che sfruttò dignitosamente un soggetto di per sé eccezionale, ovvero il contrastato amore tra l'affermata poetessa Elizabeth Barrett e il suo giovane estimatore, a sua volta poeta, Robert Browning.
In tempi più recenti solo "Bright star" (2009) di Jane Campion ha raggiunto pari, anzi maggiore, intensità, raccontando in modo personale la relazione tra John Keats e Fanny Brawne, bruciata dalla morte prematura del poeta. Altri tentativi sono invece risultati banalizzanti e irrisolti. Si pensi a "Tom & Viv" (1994) di Brian Gilbert, con Willem Dafoe e Miranda Richardson che pure si impegnano per riproporre il tormentato amore tra il premio Nobel Thomas Stearns Eliot e la moglie Vivienne, la cui follia cresce proporzionalmente alla fama del marito. Ma Paolo Mereghetti li liquida così: «Uno straziante cineromanzo che si rifugia nell'esattezza della ricostruzione ambientale per sostenere alla meglio un trito repertorio coniugal-intellettuale di incomprensioni e nevrosi».
Non ha fatto meglio Michele Placido in un "Viaggio chiamato amore" (2002), affrontando un'altra difficile relazione tra poeti, dall'esito inverso (stavolta è lui a finire in manicomio), con una credibile Laura Morante nei panni di Sibilla Aleramo e Stefano Accorsi che invece finisce costantemente sopra le righe in quelli di Dino Campana. L'esito è «un film che gira a vuoto, sfiorando il nucleo della storia e dei personaggi senza mai penetrarlo», osserva l'altro storico compilatore di dizionari del cinema, Morando Morandini. Campana è il poeta più saccheggiato dalla settima arte: valido, ma introvabile, "Inganni" di Faccini (1985), manieristico "Il più lungo giorno" di Riviello (1998).
Da Di Caprio alla Paltrow
In un paio di occasioni anche star di Hollywood hanno prestato il loro corpo e la loro notorietà per riportare in vita grandi poeti. È il caso di Leonardo Di Caprio che interpreta Arthur Rimbaud in "Poeti dall'inferno" (1994) della regista polacca Agnieszka Holland: «Maledettismo d'accatto», secondo il sempre caustico Mereghetti.
Stroncato anche "Sylvia" (2003) di Chrisitne Jeffs (2003) con Gwyneth Paltrow nei panni dell'ipersensibile Plath e Daniel Craig in quelli del marito/poeta laureato (e fedifrago) Ted Huges: ha fatto irritare persino la figlia della coppia.
Meglio quando il cinema affronta le vite dei poeti in maniera meno romanzata, bensì, appunto, più poetica: esempi interessanti sono "Poesia che mi guardi" (2009) di Marina Spada su Antonia Pozzi e "Urlo" (2012) di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, dedicato ad Allen Ginsberg. La mancanza di un trama evidente li rende più difficili da seguire, certo. Ma è così anche la poesia. E la vita.
Il Postino e Poetry
Se poi la macchina da presa sposta l'attenzione dal poeta alla poesia, allora sì che il lirismo del cinema esalta quello dei versi.
È successo ne "Il postino" (1994) di Massimo Troisi e Michael Redford, in cui non è Neruda il protagonista ma la poesia che lega il portalettere a quest'ultimo e che irrora le loro vite e quella dell'isoletta italiana su cui il grande autore cileno si è ritirato.
Un altro esempio, ancor più calzante, è "Poetry" (2012) del coreano Lee Chang-dong. Qui la poesia è esercizio di vita, ricerca della bellezza, resistenza alla violenza e alla malattia, messe in atto da un'anziana signora qualunque, che in un corso di scrittura scopre uno strumento eccezionale (la poesia, appunto) per contrastare l'avanzare dell'Alzheimer e un nipote stupratore.
Pietro Berra
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