Homepage
Lunedì 02 Marzo 2009
Guantanamo, ecco perché gli Usa
hanno accusato l’ex imbianchino
Su Sherif el Meshad sospetti, ma mai nessun processo. E un terrorista afferma: «Mai affiliato ad Al Qaeda»
Nessun processo. Eppure il "comasco" rinchiuso a Guantanamo è stato chiamato, per ben quattro volte, davanti alla commissione per la revisione del suo stato di «nemico» degli Stati Uniti. Quattro audizioni di cui, però, non si ha alcuna trascrizione ufficiale. Ciò che è stato reso noto, nel corso degli anni, sono le prove d’accusa e quelle a difesa di Fathy Sherif el Meshad, egiziano con casa in via Turati a Camerlata arrestato con l’accusa di terrorismo e, ora in attesa di conoscere le sue sorti lontano dal carcere di Guantanamo. Accuse cambiate nel corso degli anni. Diventate via via sempre più evanescenti.
Difficile interpretare il riepilogo delle prove contro e a favore riepilogate nei suoi atti ufficiali dal ministero della difesa statunitense. E, soprattutto, difficile trovare un equivalente nostrano di quegli atti. In ogni caso ecco le accuse mosse nel corso degli anni a carico di Sherif el Meshad, che giustificherebbero la sua «detenzione». Nel 2004 il giovane egiziano era sospettato di aver ricevuto dai talebani, nel corso del suo viaggio in Afghanistan del luglio 2001, un fucile kalashnikov AK-47 con relative munizioni, accusa poi scomparsa dopo il 2006. E ancora: un testimone avrebbe riconosciuto in Sherif uno degli aguzzini che nel 2000, in Afghanistan, lo avrebbero torturato. In realtà - ma il fatto viene riconosciuto soltanto nell’ultimo pseudo-processo datato ottobre 2007 - in quell’anno il giovane egiziano era a Como. Fonti anonime, poi, avrebbero indicato nel detenuto a Guantanamo si sarebbe esercitato in un campo di Al Qaeda ad Al Farouq, vicino a Kandahar. Un’altra fonte avrebbe poi identificato in Sherif l’uomo che gli avrebbe venduto una videocassetta vhs con le immagini dell’attacco nel golfo Persico al cacciatorpediniere della marina militare statunitense Uss Cole. Sempre riguardo al video dell’attacco alla nave Usa la stessa fonte «crede che, quando il detenuto (Sherif ndr) lavorava in Italia, ha scaricato informazioni da internet per acquistare quel video e per rivenderlo». Infine grande importanza nell’accusare l’imbianchino di via Turati di essere un terrorista vi è il tragitto del viaggio che ha portato el Meshad in Afghanistan e, successivamente, in Pakistan, dov’è stato arrestato dall’esercito pachistano e venduto alla Cia.
Sempre il ministero della difesa elenca anche «i fatti a favore del rilascio del detenuto». Due su tutti: innanzitutto un componente operativo di Al Qaeda ha riferito alle autorità Usa di «essere certo che il detenuto (Sherif ndr) non è mai stato un membro di Al Qaeda e crede non abbia mai aderito a nessun altro gruppo». Inoltre, scrivono (ma solo nel 2007) gli stessi estensori dell’atto d’accusa, «il detenuto non era affiliato ad alcun gruppo terrorista, perché era appena arrivato in Afghanistan e non aveva ricevuto alcun addestramento».
Insomma, sospetti, voci, ma nulla più. Non sufficienti, dopo oltre sette anni, a giustificare la permanenza del giovane imbianchino di Camerlata nella sua cella di Guantanamo. Soprattutto senza un regolare processo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA