I giudizi agrodolci che la commissione Ue (peraltro in scadenza) ha riservato alla politica economica del governo italiano non sembrano avere impressionato Matteo Renzi. Il premier sa che la vera partita si giocherà con la presidenza italiana della Ue e punta a presentarsi all’ appuntamento con un corposo pacchetto di riforme in dirittura d’arrivo.
Tuttavia i dati drammatici sulla disoccupazione, i peggiori dal 1977, dimostrano che tutto ciò potrebbe non bastare. Il mercato del lavoro, come denunciano un po’ tutti gli economisti, è un cane che si morde la coda: flessibilità e produttività sono due elementi importanti, ma per tornare ad assumere le aziende hanno bisogno di un mercato in espansione; però senza soldi in tasca, è impensabile che i cittadini tornino a spendere. Gli 80 euro in più e gli aiuti alle famiglie possono giovare, ma in realtà ciò che serve, come dice Fabrizio Cicchitto, è un cambio di rotta della politica economica europea. La fine dell’ austerity, insomma.
Il Rottamatore riuscirà ad ottenerla? Difficile crederlo in assenza di segnali da parte di Berlino. Ciò spiega l’importanza del braccio di ferro in atto sulla candidatura del popolare Jean-Claude Juncker alla guida della commissione. La Germania lo appoggia senza esitazioni, ma sotto il pelo dell’acqua si intuiscono le trattative in atto. E’ dall’esito di questa diplomazia coperta che si capiranno le chances del nostro Paese nell’imporre cambiamenti. Il rinvio del pareggio di bilancio, in dubbio filo all’ultimo momento, è solo un piccolo aiuto. Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan insiste sul fatto che i nostri numeri sono diversi da quelli di Bruxelles e che il piano di privatizzazioni vale uno 0,7 per cento del Pil (gli eurocrati non ne hanno tenuto conto). Ma è chiaro che a Renzi serve di più, l’avvio di un ciclo espansivo al quale dovrebbe contribuire anche il decreto “sblocca Italia”. Si vedrà ben presto se l’Italia troverà alleati in Europa (Cameron per esempio minaccia l’uscita dalla Ue se dovesse passare la candidatura Juncker). Intanto bisogna osservare che le retrovie non lasciano tranquillo il premier.
La battaglia in atto a palazzo Madama su riforma del Senato e del titolo V della Costituzione vede la minoranza del Pd ancora schierata a difesa del vecchio ddl Chiti. L’intesa raggiunta sul cosiddetto modello francese è stata respinta dai senatori della sinistra democratica, da Forza Italia e dalla Lega (il Carroccio ha presentato quasi quattromila emendamenti). In questa situazione la maggioranza non ha i numeri, tanto da indurre il capogruppo Pd Zanda ad avvertire i suoi parlamentari che non ci si può comportare come il gruppo misto. La relatrice Anno Finocchiaro aggiunge che l’ipotesi dell’elezione diretta del Senato non è più in campo e che occorre compattezza. La grande vittoria elettorale e l’implosione degli avversari si sta rivelando per il Rottamatore una palude insidiosa. Il fatto che il centrodestra e i centristi siano alle prese con la necessità di una rifondazione divide in mille rivoli i gruppi, con tutte le incertezze del caso. In Forza Italia, per esempio, la fronda di Raffaele Fitto ha aperto un caso dagli esiti imprevedibili, con inevitabili riflessi sul patto del Nazareno.
Silvio Berlusconi appare come un’anatra zoppa: combattuto sulla strada da imboccare e non più padrone assoluto del suo partito.
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