Addio ad Amedeo Vergani,
maestro fotoreporter
Il giornalista è morto a Merone all'età di 65 anni, colpito da attacco cardiaco. Una vita a raccontare la sua terra e tutto il mondo in immagini. L'impegno nel sindacato
Ecco un ricordo di Amedeo tratteggiato dalla penna del collega Emilio Magni.
MERONE – Se n'è andato nel sonno, forse mentre sognava di essere nel deserto con gli “uomini blu” sui cammelli che tante volte aveva incontrato e fotografato. Non poteva che lasciarci così, Amedeo Vergani, uomo simpaticamente imprevedibile, un po' genio e un po' sempre burlone, giornalista di razza e fotoreporter di successo. Era nato a Erba nel 1944 ed aveva cominciato dal gradino basso: “corrispondente” da Merone. Erano i primi anni Sessanta. E da quei giorni la sua è stata una vita interamente dedicata all'informazione: talento e dedizione totale, come se fosse andato a prendere i voti.
Nel suo immenso studio, pieno di tanti ricordi e di una stravagante confusione ordinata, sono rimaste lì, da venerdì sera, le piccoli grandi cose che lo hanno accompagnato negli ultimi instanti di questa sua affascinante vita tutta dedicata a raccontare alla gente tante cose, grandi o piccole, all'estremo del mondo, o in riva al Lambro, belle, brutte, comunque sempre appassionanti, curiose, avvincenti. Davanti al computer erano sparpagliati gli occhiali mancanti di una stanghetta, le sigarette, il posacenere, qualche foglio con gli appunti, una vecchia sgualcita rubrica de telefona dalla quale straripavano foglietti e numeri da tutte le parti. Sotto la scrivania giacevano i suoi immancabili scarponi Timberland, gli ultimi dei tanti che aveva calzato in giro per il mondo: sulle sabbie roventi, nelle steppe affondate nel gelo, lungo gli infiniti percorsi in cerca di immagini. “Senza gli scarponi non si va da nessuna parte a fotografare”, amava dire sempre compiaciuto e ironico.
Calzava già le scarpe grosse, che allora cominciavano ad essere di moda, quando, giovanissimo, era appena “corrispondente da Merone” de La Provincia . Durò poco quell'incarico perché il direttore Gianni De Simoni intravide le qualità che Amedeo aveva nei cromosomi e se lo portò al giornale, mandandolo a Lecco a reggere la redazione che era nata da poco: una condizione da “avamposto degli uomini perduti”. Tenne botta, resse bene, però Amedeo, andando dentro con slancio e successo in avvenimenti molto forti. Passò alla cronaca di Como.
Il suo chiodo però era la fotografia, passione che si accompagnava a un altro grande amore, quello dei viaggi estremi e delle esplorazioni nel deserto africano. Ed eccolo assieme alla dolce moglie (che prima lo ha seguito poi lo ha aspettato per tutta la vita) nelle distese sabbiose alla guida di una Rang Rover appositamente attrezzata (sapeva farsi il ghiaccio anche in mezzo al deserto) sulle misteriose piste del Sahara che in quei tempi erano davvero ignote. I suoi reportages fotografici sui Tuareg, gli uomini blu dallo sguardo fiero, sulle carovane dei cammelli che trasportavano il sale, sulle pitture rupestri delle rocce del Sahara, hanno avuto buone accoglienze dai direttori importanti riviste anche straniere, tanto che Vergani, a metà anni Settanta lasciò il giornalismo scritto per andare in giro per il mondo a fare il fotoreporter professionista. Testate internazionali, in particolare tedesche hanno dato grande risalto ai suoi servizi sulla Mafia, sull'apartheid in Sud Africa , sugli emirati arabi, sulla Finlandia. Ha fotografato i quartieri malfamati di Instanbul di notte, è stato sugli atolli del Pacifico che adesso non ci sono più. Quindi le sue immagini sono più che un documento. Con la sua mitica Leica ha raccontato la vita, gli usi, le tradizioni di popoli, come i lusitani, i ladini. Ha vissuto assieme ai pastori sardi sul Supramonte.
Le sue immagini hanno anche corredato libri importanti come “Le Giubbiane” pubblicato da Electa con i testi di Nanni Svampa. Suo è il gran bel patrimonio di immagini raccolte nel libro “Fiere, santi, miracoli nell'Alta Brianza”. E' stato anche definito un “fotografo geografico” per aver tenuto aggiornato costantemente l'archivio di alcune grosse case editrici come De Agostini. Ma dentro aveva il mestiere del giornalista quindi la sua vera opera è stata quella di raccontare, non con la tastiera della Olivetti, ma con la macchina fotografica. Non si era ancora lasciato sedurre dalla “digitale”. E' arrivato purtroppo prima l'infarto che lo ha portato via cogliendolo nel sonno.
Emilio Magni
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