L’aspetto più incredibile e meno comprensibile degli applausi dei poliziotti in solidarietà ai colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi è l’applauso stesso. Ma non solo. Ciò che stride fin dall’inizio dell’inchiesta, è questo sostegno acritico, totale ai quattro agenti, prima inquisiti e poi condannati. Un sostegno soprattutto sindacale con qualche silenzio di troppo nella catena di comando.
Ora, dopo anni ad appoggiare prima la versione dei poliziotti indagati, poi ad attaccare testimoni e parenti della vittima, fino a contestare una sentenza definitiva senza dimenticare lo sprezzo di ogni parola di pietà, scusa o ravvedimento, ora siamo agli applausi. Perché il Sindacato autonomo di polizia, si è spinto fino a tanto, a costo di arrivare a disprezzare - ed è paradossale per un organo che della legge è a presidio - non solo l’istituzione giustizia, bensì una sentenza definitiva? E perché, anche di fronte al montare unanime o quasi dell’indignazione (che arriva perfino da molti agenti), anche da Como si arriva a sostenere questa linea?
Il Sap parla di errore giudiziario, tesi legittima ma che dovrà essere riconosciuta da un tribunale. Il che finora non è stato. E così gli applausi e quanto avvenuto prima rischiano di apparire come una difesa d’ufficio, lo scudo di una Casta che vuole restare tale e soprattutto intoccabile. Con il risultato, oggi, che per la pubblica opinione quei poliziotti che hanno applaudito sono i “cattivi poliziotti” o i “poliziotti cattivi”, coloro che invece di darci sicurezza, ci fanno paura. Come il gendarme d’un tempo. Ma ciò non è. Non esistono i poliziotti “buoni” e quelli “cattivi”. Ci sono uomini e donne in divisa che, come in tutti i mestieri , lavorano bene e quelli che sbagliano. C’è l’agente che va in piazza a farsi massacrare e chi perde il controllo o ne approfitta.
Fondamentale è che ci sia qualcuno che accerti cosa è avvenuto, che l’indagine segua i crismi della legalità e che chi è coinvolto assicuri massime trasparenza, collaborazione ed equidistanza, ben sapendo quanto sia indispensabile che il suo lavoro tanto delicato e difficile goda della credibilità di tutti, anche - paradossalmente - della frangia criminale. Basta una crepa, un dubbio infatti e sarà proprio il malavitoso o l’eversivo a goderne, a non temere l’investigatore e a trasformare un errore umano in un danno per la collettività. Ecco perché un applauso e la gestione dell’intero caso Aldrovandi (ma anche altri casi di morti sospette in presenza di agenti o carabinieri) non possono diventare il paradigma attorno al quale costruire una polizia moderna e trasparente molto differente da quella interpretata da Gian Maria Volontè in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” dove gridava tronfio: «Il popolo è minorenne, la città è malata. Ad altri spetta il compito di curare e di educare. A noi il dovere di reprimere! La repressione è il nostro vaccino! Repressione è civiltà».
È tempo invece di una polizia che si deve alimentare di esempi da proporre. Il migliore, guarda caso, arriva nello stesso giorno dell’esplosione del caso Aldrovandi: ieri si è spento il vicecommissario di polizia Roberto Mancini. Aveva 54 anni, da tempo combatteva contro un linfoma frutto degli anni di indagini fra i rifiuti tossici della Terra dei fuochi. L’ennesimo poliziotto morto per il suo lavoro, per quattro soldi, con pochi mezzi, guardato male dai delinquenti, ignorato dai più, trascurato dalla politica sempre seduta in prima fila ai congressi sindacali e prodiga solo di retorica. Un poliziotto che in vita sua, come i mille Montalbano che lavorano e soffrono in silenzio, non si era mai sentito applaudire. Certo non dai politici troppo intimi con i piani alti delle questure e forse troppo poco anche dai suoi colleghi.
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