Ca’ d’Industria, 200 anni
di civiltà quotidiana

I duecento anni festeggiati a Como dalla Ca’ d’Industria, la benemerita Casa di assistenza degli anziani, arrivano a proporci qualche riflessione diversa dal solito. Non è certo un periodo tranquillo quello che stiamo attraversando, funestato da catastrofi naturali, migrazioni di massa, guerre sanguinose, atti di terrorismo, massacri di innocenti, ondate di ferocia inaudita, un vortice di violenza e di odio che scuote il mondo. Un vortice che è arrivato fino a noi anche nel quotidiano, si manifesta nei gesti estremi degli emarginati sociali, nei dissesti finanziari dovuti anche agli abusi della corruzione, fino ai rapporti a distanza fra le persone che rifuggono spesso dal manifestarsi a vicenda affetto, amicizia per timore di essere offesi in qualche modo, di ricevere sgarbi o ripulse. Si passa dai conflitti collettivi, dal crollo di civiltà, al disagio individuale.

Per questo ogni gesto di generosità e di altruismo, qualunque atto di rispetto e di bontà ci sembrano lampi di luce nel buio. Ma forse è l’eccesso di male che ci piomba addosso dal puntuale resoconto dei disastri che accadono dovunque a renderci troppo pessimisti, esageratamente incerti del bene che pure c’è, intorno a noi, e neppure nascosto. Non sappiamo apprezzare abbastanza la presenza disinteressata di quanti operano per garantire la nostra sicurezza, la pace, l’assistenza, la compagnia. Ed anche l’affetto, il dono più grande e più vero della vita. Oggi, non meno di ieri. La Ca’ d’Industria venne fondata il 3 marzo 1817, come dice il nome era dedicata soprattutto ai lavoratori, fungendo da sostegno ad un’economia locale in crisi e quindi cercando di dare un’occupazione a gente impoverita dalla mancanza di lavoro; fra l’altro, era un momento nero per il settore tessile.

Ma prima di quell’anno si erano incrociati nel Comasco, sotto la dominazione di potentati stranieri diversi, l’alternanza di austriaci e francesi, iniziative diverse di carattere assistenziale per venire incontro alla dilagante povertà e alle malattie. Dicevamo all’inizio, duecent’anni sono tanti, ma altre catene di solidarietà erano state create fino ad allora, per volontà di persone diverse, ordini religiosi o gruppi di laici mossi dall’aspirazione di aiutare i bisognosi a lenire almeno se non a risolvere i guai derivanti dall’indigenza e dalle malattie. La stessa Ca’ d’Industria non prende le mosse proprio dal 1817, ma almeno da una decina di anni prima, durante il periodo napoleonico, quando vennero avviati vari progetti di pie Case di ricovero in edifici diversi, per lo più in conventi non più utilizzati, guardando a realizzazioni in altre città vicine come Milano e Abbiategrasso ma incagliandosi spesso per carenza di finanziamenti. Solo nel febbraio 1817 venne individuata come sede adatta una ex caserma in piazza Jasca (adiacente all’odierna piazza Volta), che però si rivelò inferiore all’attesa e quindi rese necessaria un’altra faticosa ricerca, conclusa solo nel 1823 in un edificio adiacente alla chiesa di San Giuliano.

Qui la rievocazione si deve fermare, perché vi troviamo il senso di un excursus storico propiziato dai festeggiamenti per il bicentenario dell’istituzione dedicata agli anziani, che attualmente è radicata nel territorio con una molteplicità di sedi adeguatamente attrezzate. Dobbiamo infatti individuare come sia stato possibile l’acquisto e il funzionamento del fabbricato di San Giuliano, grazie all’intervento di alcuni benefattori che vollero tener segreta la loro identità. Quattro personaggi, in particolare, s’incaricarono di trovare la somma sufficiente all’acquisto dello stabile e alla prima dotazione di arredo. Da qualche ricerca d’archivio emergono alcuni nomi: il vescovo Carlo Rovelli, esponente di un grande casato nobiliare lariano e munifico filantropo, il notaio Gaetano Perti che stilò l’atto d’acquisto e fu anche l’esecutore testamentario del vescovo subito dopo la sua scomparsa, un altro Perti notaio, Antonio, zio di quel Tomaso che divenne poi direttore delle pie Case d’Industria e di Ricovero: chi altri? Chissà. Quasi certamente, nella compagine dei donatori s’inserì anche Alessandro Volta, con un prestito rivelatosi ben presto insolvibile (la stessa sorte di tante cambiali seminate lungo il cammino di San Guanella). Un consistente apporto economico seguì nel corso del tempo attraverso le collette, solitamente propiziate dalle parrocchie o dai sussidi erogati dalla Congregazione di Carità. Non sono infine mancati gli espedienti più vari escogitati da commissioni d’esercizio e autorità pubbliche per sopperire alle crescenti esigenze di un’istituzione benefica che stava diventando sempre più necessaria, affiancando il lavoro di dirigenti e amministratori che non chiedevano compensi.

Abbiamo fatto alcuni nomi, a puro titolo di esempio. Ma lo sfogliare le pagine ingiallite della storia trascorsa fa risaltare soprattutto quanto sia stato grande lo sforzo collettivo di una comunità per dare sollievo alle persone che non possono essere lasciate sole nell’ultima fase della loro esistenza. E’ quello sforzo che continua, punteggiato da episodi di generosità, di amore per il prossimo che non trova posto nelle cronache quotidiane, ma rappresenta la ragione stessa della nostra civiltà, un baluardo contro la barbarie.

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