Ci fosse stato ancora il buon Carluccio Lietti, probabilmente avrebbe fatto uno dei suoi proverbiali blitz. Telefonando al catering che ha curato il menù del galà degli ottant’anni e facendo la solita modifica. Via tutto, o quasi, del concordato e «mi raccomando un risotto e delle patate. Meglio se saltate in padella o bollite». Perché in fondo la Cantù is devotion è questa: pochi lustrini e paillettes e tanta sostanza.
Siamo partiti, volutamente, da uno di noi, che poi era soprattutto uno di loro, per spiegare cosa c’è dietro il prestigioso compleanno festeggiato ieri sera. Perché Carlo, ma per tutti – soprattutto il sciur Aldo Allievi – Carluccio, ha per anni incarnato il vero significato della Pallacanestro Cantù. Un club grande come tutta una città, una sorta di piccolo Maccabi Tel Aviv, che era – ed è – l’espressione di un’intera Nazione.
Lietti – nel suo grande – era, contemporaneamente o in fasi diverse, giocatore, segretario, fac totum del Coc (il Circolo operaio canturino) e corrispondente del quotidiano La Provincia. Insomma, un tutt’uno tra squadra, società e territorio. L’espressione più pura della piccola Cantù che diventava grande nel mondo non solo per l’abilità dei suoi maestri mobilieri o per le dolcissime mani di chi lavorava pizzi e merletti, ma anche per i canestri dei suoi eroi.
Ottanta anni di emozioni, vuol dire anche “Ottanta voglia di basket”. Oppure “Ottanta voglia di sventolare” la bandiera biancoblù. Qui – come e forse più che da altre parti – la palla a spicchi è ovunque, in ogni anfratto. Ma qui – come in nessun’altra piazza – all’ombra del Garibaldi coloro che disquisiscono di pallacanestro sono molti – ma molti – di più di quelli che sono andati al palazzetto a vedere la partita. Perché il virus della passione te lo inoculano da bambino, subito dopo le vaccinazioni obbligatorie. E parlarne diventa un’esigenza.
Che bello vedere, ieri sera, sfilare insieme i campioni di ieri e quelli di oggi. I dirigenti di allora e gli attuali. I tifosi più conosciuti e quelli ai primi anni di curva. Una curva che trasuda passione e attaccamento e che si riassume in sei lettere: Eagles (non a caso pure loro insigniti di una delle ottanta stelle testé incise nell’omonima piazza appena sottoposta a restyling).
A Cantù gira tutto in modo particolare. Il presidente della Pallacanestro conta come – o più – del sindaco e il capitano è ascoltato tanto quanto il prevosto. E scorre del bianco e dell’azzurro – a tinte forti – nelle vene di chi ha scelto di avere un secondo amore (ma sovente è anche il primo), quello per la squadra del cuore.
Se questa città è unica, la sua squadra lo è ancora di più. E nemmeno la sua gente sfugge a una tipicità che non ha eguali. In nessun altro posto. Dalla Basilica di Galliano al colle di Cucciago, la processione pagana conduce tutti verso i luoghi della leggenda. Una volta era la (o il, non si capirà mai) Parini. Poi è stato il Pianella, momentaneamente ai box, ma pronto a tornare ancora più splendente. Sarà il fil rouge tra la Pallacanestro Cantù che è stata e quella – 2.0 – che verrà.
Perché tutto scorre, tutto passa, ma una cosa resta. E si chiama fede. Smisurata e in una sola direzione, che porta direttamente dietro quei cinque lungagnoni che fanno di tutto per “far paniere”, come dice da sempre Gianni Corsolini. Un altro che - istruttore, dirigente d’azienda, dirigente di club e direttore sportivo - di risotti ordinati furtivamente da Carluccio Lietti ne ha mangiati a iosa. Magari, facendo finta di nulla e strizzando l’occhiolino al sciur Aldo. Che a sua volta si teneva stretto il piccolo Pierlo. Che poi diventerà il grande Marzorati. Per una storia – esaltante e di vittorie – che in fondo è la stessa della piccola società che è diventata grande. Ottanta di questi giorni, Pallacanestro Cantù.
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