È una delle prime giornate calde di questa strana estate, un venerdì che alterna un cielo azzurro e invaso dal sole ad un movimento di nuvole che si addensano e poi si sfaldano di continuo, creando una cappa d’afa su una Brianza in attesa delle vacanze. È una giornata come le altre, vuota com’è sempre l’atmosfera in agosto. Proprio in questo vuoto, in questa solitudine forzata, la mente può essere più fragile, debole e annebbiarsi fino a non avere più cognizione di sé. Così in questa Brianza d’agosto la normale quotidianità viene colpita da una tragedia inspiegabile. A Carugo un ragazzo giovane, vent’anni,
colpisce ripetutamente la madre, poi preme intorno al collo, fino a toglierle la vita. Non è necessario raccontare tutti i particolari di questo gesto inspiegabile, che proprio nel suo compiersi mette in luce il groviglio di una mente che non riesce più a controllare i propri gesti, che non è più cosciente di sé.
In casi come questi è difficile pronunciare parole, perché sappiamo quanto sia grave ciò che è accaduto, quanto sia doloroso, sempre, sapere che un figlio toglie la vita a chi gli ha dato la vita. Non possiamo però né giudicare, né puntare l’indice contro il ragazzo che ha commesso il terribile omicidio. Non spetta a noi: l’unica cosa che è possibile fare di fronte a queste tragedie è riuscire a comprendere, anche se è difficile per ognuno di noi capire come si possa trovare il coraggio per compiere tutte le azioni che hanno portato all’omicidio della madre.
Qui non è questione di coraggio, ma di fragilità. La ragione, se in questo ragazzo fosse stata lucida, non avrebbe permesso che tutto ciò avvenisse, avrebbe imposto i propri freni inibitori, avrebbe fatto pensare non solo al legame di sangue che lega la madre e il figlio, ma avrebbe fatto emergere anche quell’amore profondo, quel legame che, in modo naturale, si instaura.
Sarà difficile trovare anche una spiegazione logica, perché ad avere il sopravvento in questo pomeriggio afoso d’agosto è stata una fragilità che non ha trovato nessun punto di redenzione, che non è riuscita a fermarsi prima che l’inevitabile potesse succedere. Non ci azzardiamo (e non è giusto farlo) a formulare ipotesi sulle motivazioni che hanno spinto il ragazzo ad avventarsi sulla madre. Sappiamo però che abbiamo sia la madre uccisa che il figlio assassino nella stessa condizione: cambiano solo i ruoli, ma entrambi sono vittime di un destino o di un male interiore che non è riuscito a contenersi nel corpo di un figlio ed è esploso, annientando lei, la madre, ma anche il figlio stesso che si sta affacciando alla vita, che stava crescendo e che ora dovrà fare i conti con questa terribile peso da portare sulla propria coscienza, quello di essere stato lui a privare la madre della vita, ma anche la propria famiglia numerosa della madre.
Ancora una volta è necessario chiedere ad ognuno l’esercizio della pietà nel giudicare questa tragedia: non puntiamo il dito contro il ragazzo, ascoltiamo il lamento che questa fragilità, sfociata in gesti terribili, ci fa sentire e, se possibile, chiediamo per lui la possibilità di attraversare il duro e lungo percorso che lo aspetta, quello che potrà portarlo a trovare uno spazio per sanare le ferite dell’anima e della mente. Ogni uomo ha le sue debolezze, le sue ferite interiori: a volte si riesce anche per una vita intera a convivere con loro, a non lasciare che la forza brutale del male prenda il sopravvento.
Altre, come è successo, al ragazzo di Carugo, questo non è possibile. E proprio per questa complessità dell’intimità umana, ha bisogno di perdono e di comprensione, un perdono che solo la pietà può dare e giustificare.
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