Casetta: non ci si fa
giustizia da soli

In questa terra dove tutti hanno una giustificazione valida in saccoccia e un diritto da accampare sempre pronto all’uso, quanto sta avvenendo sul nostro lungolago non dovrebbe costituire una sorpresa. Ma attenzione a sottovalutare la portata simbolica di quella casetta in legno rimessa in piedi sulla la passeggiata “Amici di Como” all’insaputa delle autorità. Assemblata nel bel mezzo della notte, con i favori del buio, e fatta trovare ai comaschi (e, soprattutto, all’amministrazione comunale) bell’e pronta all’uso (o quasi: solo l’intervento dei carabinieri del nucleo tutela del lavoro ha infatti bloccato l’ultimazione del “chiringuito”). Riassumere l’intera questione in poche righe è impresa titanica. La vicenda della casetta voluta dal Consorzio Como Turistica (unico soggetto che, in base al contratto di sponsorizzazione con il Comune per la passeggiata sul disastrato cantiere per le paratie, ha titolo a trattare la realizzazione di eventi e iniziative in quell’angolo di città) ma di fatto di proprietà di una società privata, inizialmente autorizzata dall’amministrazione cittadina poi tornata rapidamente sui propri passi, non può essere liquidata con un giudizio netto pro o contro la società a cui il chiosco appartiene o pro o contro Palazzo Cernezzi. Di certo, in questa vicenda, c’è un pronunciamento del Tar che ha sospeso l’annullamento della concessione del suolo pubblico deciso dal Comune. E, quindi, ha fornito ai ricorrenti la legittima aspettativa di poter dar vita a quanto richiesto. Ma non è prendendo a schiaffi un’istituzione, ripristinando unilateralmente in un luogo pubblico - che, per definizione, appartiene a tutti i cittadini - un manufatto privato che quell’aspettativa può trovare legittimazione.

Dopo l’ordinanza del Tar che le dava ragione la Chops srl, società proprietaria della casetta, ha notificato un’istanza al Comune affinché avviasse un procedimento di ottemperanza della decisione del giudice amministrativo. Il Comune ha risposto immediatamente, da un lato annunciando ricorso al Consiglio di Stato, dall’altro chiedendo - ai fini della procedura - tutta una serie di adempimenti necessari al «rispetto degli obblighi normativi», ma anche evidenziando un asserito vizio legato alla domanda di concessione di suolo pubblico originaria procedendo - perché è dovere di un ente pubblico agire così - a segnalare alla magistratura rilievi potenzialmente (almeno nella lettura che ne fa il Comune) di interesse per la Procura.

Anziché seguire le strade che le nostre leggi mettono a disposizione di un privato per far valere le proprie ragioni nei confronti di un ente pubblico, anche arrivando - nel caso - a denunciare i funzionari del Comune di aver abusato dei propri poteri se lo si ritiene, o presentando un conto salato per i danni subiti, i proprietari della casetta hanno deciso di farsi giustizia da sé.

Proviamo a immaginare cosa accadrebbe se agissimo tutti così: il Comune non mi concede di costruire un edificio di cui son sicuro di aver diritto, e io me lo costruisco lo stesso; il Comune non mi concede di mettere i tavolini del bar in piazza pur se è mio diritto, e io la piazza la occupo lo stesso; il Comune mi multa per divieto di sosta ma io son certo di poter lasciare l’auto in quel punto, e così continuo a parcheggiare in divieto.

Ha ragione il sindaco Lucini a dire che siamo di fronte a «un atto di forza senza precedenti». Ma alle parole Palazzo Cernezzi non ha fatto seguire i fatti, ieri. Denunciando in tal modo l’incapacità dell’ente pubblico di saper intervenire prontamente. Di fronte a «un atto di forza» le autorità hanno il dovere di agire, prendendosi la responsabilità delle proprie azioni. È questione di diritto e di rispetto delle istituzioni.

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