Tra le tante scene memorabili di “Amarcord”, svetta quella dell’interrogatorio dei fascisti al padre del protagonista, sospettato di essere un anarchico nemico del regime. A un certo punto, l’inquisitore in camicia nera svela la prova che lo incastrerebbe alle sue responsabilità: «Ti hanno sentito dire questa frase: se Mussolini va avanti così, io non lo so…». E da lì parte un dialogo surreale, spassosissimo, tragicomico, nel quale il gusto del grottesco di Fellini tocca uno dei suoi vertici: il fascista toscano rude e ricinatore, quello romagnolo sboccato e manesco, quello napoletano - quello della seconda ondata, sulla sedia a rotelle e con il riporto impomatato - che si addolora «per questa ostinazione a non voler capire: ma pecché? ma pecché?».
Siamo a una vetta altissima del cinema e a un picco profondissimo dell’analisi sull’italianità, sulla nostra capacità atavica di prendere un mormorio e su quello costruire una cascata ogni minuto più tonante e tumultuosa fino a trasformare il nulla in realtà, la maldicenza in verità e, grazie a questa, arrivare al vero obiettivo finale: far trangugiare due bicchierate di olio di ricino al povero signor Aurelio, che magari era pure innocente, magari quel giudizio non l’aveva mai pronunciato, magari quella frase non aveva alcun senso, ma intanto aveva imparato la lezione che bisogna sempre starsene al proprio posto.
Il caso Crocetta è la stessa roba. La stessa fogna. Lo stesso truogolo. La stessa suburra. La stessa turpitudine. Lo stesso trionfo della doppia o anche della tripla morale, che grazie a un’intercettazione che non esiste - e a tutta evidenza quell’intercettazione non esiste - costruisce la prova provata, l’ambiente, l’acqua dove sguazza la diffamazione, il brodo di cultura dell’infamia, il “contesto” degno di Sciascia grazie al quale regolare i conti interni del partito più trasparente e democratico che c’è. La cosa è vergognosa come poche altre e in un paese serio avrebbe già scatenato un moto di rivolta civica, ma qui, come è noto, siamo nella repubblica dei datteri e quindi, tra uno sciopero di quei patrioti del sindacato a Roma e a Pompei, un dagli al negro di quegli altri statisti del federalismo 2.0 e un colpo di calciomercato a forza di assegni postdatati di qualche grande squadra in disarmo, sai chissenefrega. Il caldo impazza. Il sudore appiccica. La voglia di vacanze monta. Il dito prude sul telecomando. Ancora ‘sto caso Crocetta? Uff, che palle…
Eppure dovremmo rifletterci bene. Un settimanale dalla storia gloriosa - uno di quelli che passano il tempo a dare lezioni di moralità al mondo - pubblica un’intercettazione nella quale il medico del presidente della Regione Sicilia si augura che la figlia di Borsellino salti in aria come suo padre, mentre Crocetta tace. Da lì parte il circo: ognuno si sente in dovere, chissà perché, di esprimere il proprio sdegno, la propria indignazione, la propria riprovazione. E giù dichiarazioni all’Ansa e in tv e tweet e retweet e il presidente della Repubblica e il tale senatore e il talaltro deputato e il relatore della commissione di giù e il delegato agli affari di su e il fondatore dell’associazione vedove cattoliche e il leader forforoso del sindacato dei nani e dei saltimbanchi e il decano dei blogger pulciosi e il professionista dell’antimafia e il ventriloquo delle battaglie civili... Peccato che, una dopo l’altra, ben quattro procure smentiscano l’esistenza dell’intercettazione, peccato che questa non sia in possesso del settimanale ma sarebbe stata solo ascoltata e trascritta, peccato che la frase in questione, senza alcun filtro, sia stata spacciata come verità rivelata. Che peccato.
E poi, se anche fosse realmente esistita? Che significa il silenzio di Crocetta? Chi lo sa? Qualcuno ne ha contezza? Non ha sentito? Era in galleria? Era distratto? Pensava ai fatti suoi, agli europei di pallamano, all’amante indegno, alla caducità dell’essere, a un piatto di rigatoni con il ragù? Faceva come tutti quando parliamo con qualche parente o amico pedante, al quale non contestiamo le sciocchezze che dice, perché vorrebbe dire mettersi a litigare con una persona che conosci da quando eri bambino e allora lascialo parlare, che è meglio? Che ne sappiamo noi? Da quale pulpito questi santoni si permettono di spacciare il falso per il vero e decidere cosa sia consono e cosa no? Ma dove siamo? Nella Germania dell’Est? Comanda la Stasi, da queste parti?
È una pratica ben nota all’ambiente delle procure e dei giornali. Intercettazioni che nulla hanno a che vedere con le inchieste, frasi estrapolate, gente estranea infangata senza motivo e tutto questo sconcio coperto sotto la coltre farisea e ipocrita della libertà di stampa. Magari l’intercettazione non esiste ma, insomma, comunque se tutti ne parlano qualcosa ci sarà, forse perché quello lì è un tipo pittoresco e sudato e perennemente sovraeccitato e scenografico e incapace e inadeguato e sessualmente ambiguo e non coerente con l’estetica e la narrazione renziana e quindi sarebbe il caso che si dimettesse, anche perché siciliano e, si sa, siciliano è sinonimo di mafioso, ladro e familista amorale. E ci fosse stato uno dei grandi moralizzatori della categoria che avesse mosso un dito, scritto due righe o preso un provvedimento. Tutti impegnatissimi a stigmatizzare la soubrette che intervista un politico - roba forte - e poi quando si scoperchia la cloaca di Calcutta tutti a fischiettare che, d’altronde, la libertà di stampa e, d’altronde, il sacro dovere civico dei magistrati. Perché poi c’è fogna e fogna. Perché se spurga da destra, parte la crociata contro la macchina del fango, se invece spurga da sinistra, sono ragazzi che sbagliano.
Il caso Crocetta è l’ultimo frutto avvelenato dell’eredità di Tangentopoli, quando procure e avvocati facevano a gara per passare veline pubblicate, senza verifica e senza possibilità di replica, dai giornali. Un po’ di decenza, per favore, prima di mettersi a fare i professori.
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