E il maggioritario? E il vince chi prende un voto in più dell’altro? E la sera delle elezioni che dopo un minuto si sa già chi ha vinto e chi ha perso? E la cultura anglosassone nella quale il primo prende tutto e il secondo esce di scena? E i referendum di Mariotto Segni? E la Seconda Repubblica, la rivoluzione della Seconda Repubblica, la retorica della Seconda Repubblica?
Ogni tanto uno si volta per cercarli, ma non li trova. Spettri. Fantasmi. Ossi di seppia lasciati sul bagnasciuga della memoria. Ricordi frammentari che ogni tanto ti tornano in mente, come quando ripensi a un anziano parente - a proposito, come starà zia Carolina? - che da troppo tempo non dà segno di sé. E rimembri quali e quante polemiche e passioni e umori e livori aveva scatenato la stagione palingenetica del post Tangentopoli, quando tutti quanti si erano illusi che sarebbe cambiato davvero tutto per sempre, che l’Italia sarebbe finalmente uscita dalle paludi, dai meandri, dai ghirigori dell’eterna stagione democristiana, consociativa, familistico amorale, dall’Italietta dorotea delle vecchie zie, del quieto vivere, del troncare e sopire, del sopire e troncare e che la linfa vitale e post ideologica degli anni Ottanta - che almeno quello di buono avevano prodotto - riuscisse a spaccare finalmente gli schemi e a modellare l’Italia del terzo millennio.
E invece eccoci qui. Tutto è già apparecchiato per il gran ritorno del proporzionale. Un lungo periplo durato venticinque anni - da Occhetto&Berlusconi fino a Renzi&Di Maio - per ritrovarsi nello stesso identico punto di prima. E si coglie in giro un gran stracciarsi le vesti, un gran piagnucolare di prefiche inconsolabili, un gran lamentarsi dei tempi cupi, un gran indignarsi contro questo e quello rei di questo e quel tradimento. Ma è il solito problema dei media, che vivono in mondi totalmente staccati dalla realtà che dovrebbero capire e raccontare, che prefigurano cogitabondi mondi immaginari privi di radici, perfettamente funzionali alla polemichetta televisiva, ma privi di ogni aderenza con la storia, la cultura, la memoria di una nazione. Se uno volesse fare il fenomeno potrebbe citare Guicciardini, ma basta un minimo di buonsenso e di conoscenza della storia patria per capire che per gli italiani il proporzionale non è un obbligo, un giogo, una catena. È una vocazione. Interpreta ed esplicita quello che siamo. Rappresenta plasticamente quello che è il nostro modo di vivere, di comportarci, di pensare le cose del mondo.
Certo che esistono i paesi dove c’è uno che vince e uno che perde, dove chi arriva primo comanda al cento per cento e chi prende anche un solo voto in meno se ne va a casa, dove gli ex presidenti non contano davvero più una mazza e vengono rapidamente accompagnati ai giardinetti. Ma quelli sono paesi seri, paesi altri, paesi che hanno vissuto la rivoluzione francese, la rivoluzione protestante, l’emergere dello Stato Leviatano, il propagarsi dei codici. Là ci si sfida, qui ci si mette d’accordo. Qui da noi baffi neri e mandolino nessuno vince del tutto e nessuno perde del tutto, qui c’è sempre una rete, un ammortizzatore, una quota di salvaguardia, un diritto di tribuna, un potere di interdizione, una rendita di posizione. E non solo nella politica, ma soprattutto nella società civile, quella che tutti sempre mitizzano e che invece non è altro che la base imponibile dalla quale sgorgano i nostri impagabili leader. Esiste Salvini perché esiste un’Italia del Papeete, esiste Di Maio perché esiste un’Italia che aspetta il reddito di cittadinanza stravaccata sul divano, esiste Renzi perché esiste un’Italia che ciancia di giovani e futuro mentre magheggia con i suoi tranelli fiorentini.
Noi siamo quella roba lì, non altro. Il maggioritario, quello vero, quello anglosassone, non fa per noi. Prevede scelte nette, cesure traumatiche, rischio d’impresa, capacità aggregative impossibili da ottenere in quello che, in fondo, è rimasto ancora il luogo perfidamente tratteggiato da Kipling - “Un italiano, un bel tipo. Due italiani, stanno già litigando. Tre italiani, tre partiti politici” - e che, quindi, è stato costretto giocoforza dentro uno schema maggioritario che non ha mai accettato. Pensateci bene. Pronti via e il primo governo della nuova era, il trionfo di Berlusconi nel ‘94 che sembrava destinato ai millenni, cade dopo soli otto mesi su ribaltone firmato da Bossi, manco fossimo ai tempi di Rumor. Poi arriva Dini, che nessuno aveva votato, e poi vince Prodi nel ’96, che naturalmente viene fatto fuori dai suoi in meno di due anni. E poi D’Alema e Amato, pure loro eletti da nessuno e con maggioranze piene di transfughi e straccioni di Valmy. Nel 2001 rivince Berlusconi, che in effetti dura cinque anni ma, nonostante una maggioranza mai vista, non combina una mazza. E poi nel 2006 ritorna Prodi, che come da programma viene rifatto fuori dai suoi nei canonici due anni di vita media di un governo di sinistra. Ma non è finita. Nel 2008 riecco Berlusconi, mandato a casa dalla sua insipienza e dalla tenaglia del “sistema” nel 2011 e poi Monti e poi il tris di sinistra (?) Letta, Renzi, Gentiloni - eletti da nessuno - per arrivare al Circo Barnum del Conte Uno e al Circo Togni del Conte Due.
Bene, questo è quanto prodotto dalla stagione maggioritaria in un quarto di secolo. Serve altro? A che titolo i fini analisti che ci ammorbano da mane a sera sui giornali e nei talk show possono sostenere le ragioni di un sistema elettorale che con noi non ha niente a che fare? Non ci è ancora bastata questa sceneggiata? Il proporzionale è la nostra Itaca, il nostro approdo naturale, filosofico, esistenziale. Certo, si può fare in modo serio come in Germania o vestirlo con fogge pagliaccesche. Ma questo è il nostro destino. Bisognerà farsene una ragione. E considerato il livello medio degli statisti - di destra, di centro e di sinistra - che popolano il nostro campo di Agramante, se serve per non dargli i pieni poteri forse è meglio.
@DiegoMinonzio
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