Città ferma per il Crocifisso
Migliaia di comaschi in piazza

Lungo corteo partito dalla basilica di viale Varese. Il vescovo Coletti e il terremoto in Abruzzo: «La sofferenza è un’esperienza innegabile, si impone. Ciò che possiamo evitare è di farla diventare peggio, di interpretarla male»

s.ferrari

COMO - «Perché?». Questa la parola breve e inevitabile, racchiusa come un grido soffocato nel cuore di tanta gente. Oggi per le strade della città, compatta nel lungo corteo partito dalla basilica di viale Varese, una immensa folla si è posta di certo una domanda sul perché del dolore. Poca filosofia e tanta realtà nell’interrogativo che serpeggiava nei cervelli di quanti seguivano lentamente quel Cristo ligneo inchiodato alla croce che ogni venerdì santo apre la processione: non era facile voltare lo sguardo da qualche altra parte ieri, mentre persino il frastuono delle bancarelle si è interrotto per lasciare spazio ad un silenzio surreale, a parole che ricordavano sempre e soltanto l’estrema sofferenza, tristezza e angoscia, l’agonia e la morte del Figlio di Dio crocifisso. Flagellato, schernito, inchiodato... e comunque incaricato di sanare, incoraggiare, segnare la via, lasciare l’eredità eterna di un compito: «Amatevi come io vi ho amato...». Una ritualità non nuova, capace di concentrare in pochi istanti, al passaggio di quel simbolo d’amore totale, di quel volto coronato di spine, tante pene e contraddizioni. Ma ieri la gente aveva ancora gli occhi pieni delle immagini televisive sulla tragedia che ha colpito l’Abruzzo, aveva gli occhi pieni di morte e di sgomento. Nonostante tutto, si è lasciata guidare da una preghiera che prometteva benedizione e rappacificazione: come nel momento in cui il carro del Crocifisso si è fermato dinanzi della chiesa di San Bartolomeo, «nel luogo del miracolo avvenuto il 25 marzo, giovedì santo dell’anno 1529» - così è risuonato dall’altoparlante - e il ricordo del potente intervento divino ha inserito motivi di imprevedibile fiducia, di impensata familiarità con «l’uomo dei dolori» capace di sovvertire le logiche dell’ingiustizia e di far vincere la misericordia. «Noi ti benediciamo e ti rendiamo grazie, Dio di provvidenza infinita, per i grandi segni del tuo amore profusi nel corso dei secoli... guarda benigno la nostra città: a te sono noti i suoi peccati e le sue virtù, le sue ricchezze e le sue miserie, i suoi gesti di bontà e le sue debolezze...». Un senso di affidamento e di speranza ha richiamato tanti occhi sul Cristo inchiodato alla croce, ha suscitato attesa e commozione fra la gente assiepata ai lati del percorso che ha snodato il serpentone di folla che da viale Varese a viale Cattaneo e via Cadorna fino al luogo che ricorda il primo prodigioso evento, quello delle catene spezzate al passaggio del Crocifisso, ha ripreso il cammino per via Milano tornando verso la basilica. Sguardi carichi di domande sono stati intercettati dal vescovo Diego Coletti che nel richiamo conclusivo, all’interno del santuario, ha espresso la sua immedesimazione in tante realtà oggi particolarmente «provate dalla fatica del vivere e dal timore per il futuro». «Ho portato questo dolore nella mia preghiera per affidarlo al cuore del mio e nostro fratello Gesù» ha suggerito il vescovo riproponendo la drammatica questione del senso di tanto dolore innocente. «La sofferenza è un’esperienza innegabile, si impone. Ciò che possiamo evitare è di farla diventare peggio, di interpretarla male» ha chiarito mettendo in rilievo tutta la responsabilità che ogni uomo assume nei confronti della storia. Anche riguardo alla sciagura sismica non ha concesso spazio a fatalismi, ma ha indicato con forza un compito a chi si riconosce figlio di Dio ed è chiamato in ogni circostanza, anche in quella più tragica, a far trionfare l’amore.
Laura d’Incalci

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Venerdì 10 Aprile 2009

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