Generazione di fenomeni, cantavano gli Stadio. Ma basterà ai 36mila comaschi venuti al mondo nel favolosi anni ’80 essere fenomeni per reggere all’usura del lavoro fino a 75 anni come profetizzato dal presidente dell’Inps, Tito Boeri?
Chi avrebbe immaginato tra i genitori di allora, felici e emozionati nelle sale parto che il destino dei loro figli sarebbe stato così gramo?
Eppure, le basi del disastro a cui sta andando incontro una gioventù sventurata sono state gettate anche allora, con la finanza dello Stato e degli altri enti che grondava allegria, il buco del debito pubblico che faceva concorrenza a quello dell’ozono e le tanti baby pensioni e vitalizi dorati che venivano erogati con la stessa leggerezza con cui si sorbiva un noto amaro assurto a simbolo di quell’epoca su una terrazza milanese con “People from Ibiza” di Sandy Marton in sottofondo. Le colpe dei padri non devono certo ricadere sui figli, magari le loro azioni sì. Però qui le responsabilità sono tutte di un ceto politico che delle tante lezioni del povero De Gasperi mai lasciato al meritato riposo in pace, ne ha dimenticata, non caso, una, forse la più importante: “un politico pensa a un’elezione, uno statista a una generazione”. Ecco, i ragazzi degli anni ’80 sono la dimostrazione che di statisti da queste parte non ne sono mai spuntati.
Da quel tempo fino ai giorni nostri è stato tutto un pensare solo alle urne, buttare lì malvolentieri riforme obbligate e il meno dolorose possibile per l’ambito corpo elettorale. Tanto le generazioni future non votano adesso, questa la parola d’ordine delle segreterie a cui si sono adeguati volentieri tutti per garantire i privilegi a chi li ricambiava scrivendo il nome sulla scheda. Poi, quando il baratro aveva già le fauci aperte sono arrivati i tecnici, abituati a ragionare sui modelli che ignorano le persone e ci sono entrati a piedi uniti con quelle medicine che anziché guarire il paziente possono, al limite, mandarlo all’altro mondo. Perché questa situazione è anche figlia della riforma Fornero.
Un’altra canzone, Raf si interrogava su cosa resterà di questi anni ’80. Ecco la risposta: una generazione condannata al precariato nella seconda e anche nella terza età.
Già, perché oltre a raggiungere il meritato traguardo di fine lavoro senza neppure la festicciola aziendale e il ciondolo a ricordo, perché di datori di lavori ne stanno e ne cambieranno talmente tanti da rendere pressoché impossibile qualsiasi fidelizzazione, si dovrà campare con un assegno da fame, se ve ne sarà uno. Perché anche su questo non vi è certezza. Nella speranza di essere in salute visto che un altro bubbone che comincia a mandare segnali di imminente deflagrazione è quello della sanità che sempre meno riesce a garantire tutte le prestazioni. È la fine del welfare state, già profetizzata trent’anni fa senza riuscire a trovare un sostituto. La welfare society che avrebbe dovuto surrogarlo non sembra essere un modello del tutto compatibile con la realtà italiana. L’unica via di uscita è quella di costruirselo da solo il proprio welfare, senza che, anche qui, la politica ti venga incontro con interventi di riduzione di un carico fiscale tra i più alti al mondo che almeno prima serviva a garantire quei servizi che ora continuano a ridursi. Senza che lo facciano gli sprechi. Come può una persona, un padre di famiglia, costruirsi una pensione complementare se fatica a mettere insieme il pranzo con la cena?
Sarebbe ora di capire che quella della generazione ’80 e di quelle successive è un’emergenza vera. Che per garantire il futuro bisogna sacrificare un po’ di presente, soprattutto da parte di chi può farlo perché ha molto più del suo bisogno, anche per quanto riguarda la previdenza. Le ricette che la politica cucina non sono adeguate. E anche il sindacato, anziché prendersela con il dito Boeri come ha fatto Susanna Camusso, dovrebbe guardare la luna. I chiari di luna che stanno annientando una generazione.
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