Qualche giorno fa, dal Tempio Voltiano è sparito un piccolo orologio da taschino placcato d’oro che apparteneva all’inventore della pila.
Era contenuto in una delle teche collocate di sopra, in galleria, tra i cimeli più personali del nostro inventore, tra le sue lettere, le sue onorificenze, il suo bastone da passeggio.
Era una “cipolla” di fine Settecento, peraltro neppure d’oro massiccio. Placcata, dice chi ne conserva memoria, pochi in realtà, se non qualche studioso e chi, come l’architetto Darko Pandakovic, curò anni fa l’ultimo riallestimento del Tempio. Non ha grande valore, se si eccettua quello storico, culturale. Rivenderlo sarà difficile, se non per pochi euro, ché diversamente si dovrebbe trovare il modo per certificarne l’appartenenza a Volta, esponendosi al rischio di farsi smascherare.
Pare che impadronirsene non sia stato difficile. Il vetro della teca si solleva e il gioco è fatto. Non c’è allarme, non ci sono dispositivi di sicurezza, nessuna videosorveglianza, se non un paio di scalcagnate telecamere collocate all’esterno del museo.
In altre parole il Tempio Voltiano è un colabrodo, con il paradosso di un problema se possibile anche più serio, e cioè che, in realtà, non frega niente a nessuno.
Ora: della cipolla di Volta sapremo senz’altro fare a meno, e però la scomparsa di quel piccolo oggetto parcheggiato nella sua bacheca da quasi cent’anni (il Tempio Voltiano fu inaugurato nel 1928, in concomitanza con il primo centenario della morte dello scienziato) dice molto dell’interesse generale per il patrimonio storico di questa città.
Da anni, a Como, si dibatte di valorizzazione del territorio, della possibilità di cavalcare con qualche speranza di successo l’appeal turistico e culturale di un luogo straordinario che ci ritroviamo in grembo come un dono del cielo, ma che nessuno è stato mai in grado di accudire come avrebbe meritato.
L’argomento, dopo tanto tempo, riesce fin stucchevole, eppure il gran disquisire non ha portato mai da nessuna parte. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: prima che in Comune si accorgessero del furto dell’orologio sono passati giorni, nessuno sa neppure dire quanti.
La verità è che non ci importa: se si eccettua qualche parentesi aperta nel mesozoico, in tempi in cui il governo - prima della crisi e del patto di stabilità e del fiscal compact - ancora trasferiva qualche euro per le celebrazioni per il bicentenario dell’invenzione della Pila o per quelle per il centenario della nascita di Terragni, l’argomento è stato solo sfiorato.
Al punto che oggi, dopo tanti anni di discussione, i temi sul tavolo sono gli stessi di sempre, all’ombra di una questione che, peraltro, sarebbe sbagliato declinare soltanto in salsa turistica. Il problema della valorizzazione di quello che abbiamo riguarda soprattutto noi, e non gli americani o i giapponesi. Riguarda la nostra storia, la nostra capacità di ricordare, di tramandare. Riguarda l’affetto che dovremmo nutrire nei confronti di quello che ci appartiene e la voglia che dovremmo manifestare di poterlo tramandare ai nostri figli, e alle generazioni che verranno dopo di noi.
Si chiama conservazione, e davvero trasmettiamo sempre la sensazione di non sapere dove stia di casa.
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