Per una lingua ci vuole un luogo, e se un nigeriano parla dialetto bergamasco, si tratta di un luogo sbagliato. E mi pare sia una situazione drammatica, che sarebbe da fatui e irresponsabili prendere alla leggera: a un nativo nigeriano lasciamo, e incoraggiamo, il suo dialetto vissuto in Nigeria, come a uno nato a Bergamo si lasci, e s'incoraggi, il suo dialetto vissuto in quella provincia e città. Di più: invece che essere felici di aver acquistato un nuovo dialettante, dovremmo piangere con lui perché non vive più nel suo milieu linguistico d'origine, e che se si mette a parlare in un dialetto padano, da codesto suo acquisito dialetto non può che sgorgare dolore e nostalgia. E mentre abbiamo totale stima e simpatia per Tony Iwobi, ingegnere informatico nigeriano in Italia da oltre 30 anni, iscritto al Carroccio dal 1993, e a Spirano (Spirà, Bg) consigliere comunale da tre mandati, sentiamo il dovere di ribadire, anche se ormai risaputo, che il dialetto non si può imparare, si può solo vivere e respirare: nel luogo dove la famiglia biologica ci ha fatto nascere e crescere, attorniati da parole, suoni, cadenze, ritmi, eccetera. Sotto un volto sorridente e apparentemente benevolo, troppe volte si nasconde la seria e malevola intenzione di un feroce colonialismo culturale: diffidiamone!
Gianfranco Mortoni
Se il dialetto si può vivere e respirare, non si capisce perché dovrebbe risultare impraticabile a chiunque viva e respiri in un certo luogo. Indipendentemente dalla sua provenienza. Nulla può avvicinare alla tradizione, ai suoi usi, alle costumanze, dunque al linguaggio? Non è vero. Ci si può accostare, se non raggiungerla, con buona approssimazione: basta volerlo. È quel processo, non so se ignoto, chiamato integrazione. Il dialetto è un modo di pensare, di comportarsi, d'originare e scambiare sentimenti. Coglie assai meglio d'una lingua nazionale il profondo d'un territorio, ne esprime le radici, lo conosce e lo fa conoscere. Non prevede rifiuti verso chi s'industria a capirlo e parlarlo e sta fortunatamente uscendo, qui in Lombardia, dal ghetto in cui l'avevano relegato. Un tempo - a differenza di ciò che da sempre accade in altre regioni d'Italia - ci si vergognava a esprimerne il colorito lessico e le maestre di scuola punivano i bambini che si facevano sorprendere a pronunziarne qualche termine. Usare il dialetto equivaleva a dichiarare uno stato d'inferiorità. Bisognerebbe ricordarlo e, anche sulla scorta d'una tale memoria storica, apprezzare chi viene da fuori e si dà da fare per la sua nobilitazione.
Max Lodi
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