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Lunedì 15 Febbraio 2010
E' arrivato “Scratch my back”
Per Gabriel un album di cover
Erano otto anni che Peter Gabriel non pubblicava un nuovo album propriamente detto e “Up”, più volte annunciato e rimandato, era arrivato ad altrettanta distanza da “Us”
pubblicava un nuovo album propriamente detto e “Up”, più
volte annunciato e rimandato, era arrivato ad altrettanta
distanza da “Us”. Insomma, l'artista si prende tempi
kubrickiani per mettere a fuoco le sue idee ma l'altra faccia
della medaglia è che, dopo così tanto tempo, ci si aspetta
un capolavoro, per forza di cose. Se “Us” era stato osannato
come seguito ancora più ricercato di “So”, “Up” non era
stato accolto con eccessivo entusiasmo, proprio per
l'eccesso di aspettative. Da tempo si sapeva che il nuovo
disco si sarebbe chiamato “I/O” e che sarebbe stato
composto da una centotrentina (!) di idee scartate dal suo
predecessore - quindi materiale che risale ormai anche a
quindici anni fa - e rivisitate nel corso del tempo. Un tempo
in cui Gabriel ha lavorato al recupero dell'archivio dei
Genesis senza sforzarsi troppo e nemmeno partecipando
alla reunion della sua vecchia band, ha pubblicato, senza
accreditarselo, “Big blue ball”, frutto di session collettive,
affascinante ma anche un po' frustrante occasione
mancata. Un tempo, insomma, in cui il suo nome è sparito:
prima riempiva i buchi con colonne sonore e live, adesso il
suo nome è scivolato nel dimenticatoio per l'ultima
generazione mentre i nostalgici, pur apprezzandolo,
darebbero un braccio per vederlo indossare ancora una
volta la cara testa di volpe per intonare “Why don't you touch
me” o “Can you tell me where my country lies”... Il Peter
Gabriel del 2010 è un signore prossimo a compiere 60
anni, indistinguibile da Faletti, lontano dal circo musicale.
“Scratch my back” non è “I/O”, ulteriormente posposto, ma
un'inattesa raccolta di cover altrui senza altri strumenti se
non la voce, quella voce, è un'orchestra, una grande
orchestra. Difficile parlar mare di un musicista della sua
statura ma la formula, se valorizza splendidamente il suo
inconfondibile timbro, è ripetitiva e stanca presto senza
nulla aggiungere ai pezzi che si dividono in due categorie,
come a Sanremo: i big e le nuove proposte (nuove,
naturalmente, rispetto a Peter). Alla prima sezione
appartengono David Bowie con la celeberrima “Heroes”,
Paul Simon con “The boy in the bubble” che perde tutto il
ritmo africano, i Talking Heads di “Listening wind” di cui
viene valorizzata la bella melodia, Lou Reed di cui, tra tutti i
pezzi, Gabriel ha scelto la recente e poco esaltante “The
power of the heart”, il Randy Newman della classica “I think
it's going to rain today”, il Neil Young della mestissima
“Philadelphia” (sulla stessa colonna sonora c'era
“Lovetown” dello stesso Peter). Tutti brani per i quali
l'originale resta imbattuto e pure impareggiato, a meno di
non amare la voce di “Watcher of the skies” sopra a tutto. I
ragazzini sono gli Elbow di “Mirrorball”, i Bon Iver di “Flume”,
gli Arcade Fire di “My body is a cage”, i Magnetic Fields di
“The book of love”, i Radiohead di “Street spirit (Fade out) e
Regina Spektor con “Après moi”. Questi pezzi non sono così
sedimentati nella memoria come quelli dei vecchietti e,
quindi, la “cura Gabriel” funziona meglio ma, alla fine, un
disco di cover è pur sempre un disco di cover. Da notare
che vige la “regola dell'orso”: io gratto la schiena a te se tu
poi la gratti a me. È già in cantiere “I'll scratch yours”,
ennesimo progetto a venire dove tutti gli artisti interpretati
dall'artista ricambieranno il favore con un album di canzoni
sue (già pronti i Radiohead con “Wallflower” e i Magnetic
Field con “Not one of us” ma i Talking Heads non ci sono
più e Bowie è in ritiro: staremo a sentire).
Alessio Brunialti
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