In SudAfrica, come giornalista sportivo, c'è, a mio parere, uno di troppo: Enrico Varriale. Non si discute né passione né competenza per il suo mestiere, ma quel suo aver rimproverato a Walter Zenga «l'uscita sbagliata, che ci costò il Mondiale del '90 nella semifinale contro l'Argentina (gol di Caniggia)» può davvero bastare. E neppure il fatto che si tratti di cosa vecchia (nov. 2008), con relativa pace (?) tra giornalista e calciatore, può annullare un precedente di tale gravità. Sorvolando poi sul dubbio che sia più difficile fare la guerra che scriverla (uguaglianza, ci sei?), con la conseguente tentazione di stare dalla parte di chi la guerra la fa, se un giornalista, debordando dal suo ‘scrivere”, “giudica” (t'insegno io come fare le uscite giuste!) chi fa sport, allora mi vien da dire, impietosamente: «Enrico, lascia il SudAfrica, e torna a casa. Subito!».
Gianfranco Mortoni
Ma perché ce l'ha tanto con Varriale? Guardi che fare critica non è esercizio estraneo alla professione del giornalista. Semmai lo è il contrario: non farla. E di esempi, di tristi esempi, ce ne corrono sotto gli occhi tutti i giorni. Varriale è uno dei pochi giornalisti del servizio pubblico che usa i fondamentali del giornalismo: s'informa, esprime opinioni, rivolge domande ai protagonisti. Che molte volte, per questo poco, l'hanno investito a male parole, come se fosse reo di chissà che cosa. Chiedere a un allenatore se non pensa d'aver sbagliato tattica o cambio di giocatori, chiedere a un presidente se non crede d'avere esagerato nel processare l'arbitro, chiedere a un centravanti com'è stato possibile fallire un gol a porta vuota vengono considerate offese al sacro altare calcistico. All'intangibilità del sacello in cui sono (pensano di essere) racchiuse le sue star. All'autoreferenzialità d'un mondo che non accetta intrusioni, anche se le intrusioni sono i quesiti semplici che circolano in qualunque bar. Varriale fece bene a ricordare a Zenga, nel cuore d'una polemica sopra le righe, l'infelice episodio del Mondiale '90. Non perché una colpa debba essere denunziata all'infinito, ma perché bisognerebbe avere l'onestà intellettuale d'ammetterla, dopo che quasi l'infinito è trascorso dal giorno in cui la si commise. Non fu grave ciò che disse Varriale a Zenga. Fu grave ciò che Zenga si rifiutò di dire a Varriale e a molti altri prima di lui: ho sbagliato e mi dispiace. Ma ammettere un errore viene spesso considerato un aggravamento dell'errore stesso, non la medicazione più ovvia e salutare. Ne riparleremo, vedrà, durante l'avventura sudafricana.
Max Lodi
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