Il moralismo è la prosecuzione del cretinismo con altri mezzi. Quante ne abbiamo dette, e scritte, di stupidate, in questi meravigliosi venticinque anni della seconda e ora pure terza Repubblica. La Casta e la società civile. I professionisti del potere e gli uomini nuovi gettati nell’agone della buona politica. Gli arraffoni e gli specchiati. I fanfaroni e gli integerrimi. I cialtroni e gli adamantini. I papponi e gli incorruttibili. Gli azzeccagarbugli e gli algidi cantori della terzietà del diritto.
Ne abbiamo buttate di parole al vento, in questi lustri ignobili e fanghigliosi, altro che balle, magistralmente conditi con le parole d’ordine del nuovismo, del pancismo, del piazzismo, del girotondismo, del santorismo e basta e la gente non ne può più e la gente è stufa e la gente non arriva alla fine del mese e lo Stato dov’è e lo Stato non c’è e lo Stato cos’è e mamme scarmigliate e Rossi Malpeli che spuntavano dalle cave di rena e bimbi che urlavano “pane pane!” e neorealismo d’accatto e borgate pasoliniane e gioventù gomorresche e campi di pomodori ed è tutta colpa loro, dei maledetti politici mascalzoni e farabutti e lestofanti e ladri e maiali, che ci tocca pure pagarli e finanziare con i nostri soldi le loro foie, i loro vizi e vitalizi, le loro auto blu, le loro cene tra amici degli amici, i loro inciuci, ma è scoccata l’ora della rivoluzione e bla bla bla…
Un fiume, anzi, un oceano di retorica ha inzaccherato lo spirito dei tempi della Repubblica dei datteri negli ultimi due decenni e noi dei media, sempre ligi a cavalcare l’onda e sempre del tutto alieni - con il tipico coraggio intellettuale che ci contraddistingue - dal dissociarci dalla dittatura della panza e della demagogia stracciona, non abbiamo mai perso occasione per buttarla in vacca, buttarla in caciara, con tanto di filippiche contro lorsignori e tutto il resto di un mainstream grazie al quale, oltre che ottundere le residue capacità di giudizio critico e anticonformista, si sono costruite sul nulla formidabili carriere politiche e giornalistiche.
Ma poi si arriva sempre alla resa dei conti. E da lì non si scappa. Cosa c’è di così sorprendente nelle vicende dell’ultimo scandalo, quello sul nuovo stadio della Roma? Cosa c’è di inaspettato, di inusuale? Lasciamo perdere la parte strettamente giudiziaria, sulla quale, bontà sua, la magistratura farà quello che dovrà fare, che tali e tante ne abbiamo viste di inchieste esplodere sulle prime pagine dei quotidiani con il fragore delle spingarde, per poi ridursi - naturalmente dopo aver distrutto e masticato e sputacchiato persone e reputazioni - a un trafiletto a pagina ventisei su un’assoluzione arrivata solo anni e anni dopo. Non è questo il punto. Il punto è che tra le tante buffonate che ci siamo dovuti sorbire dai nostri pregevoli nuovi statisti - di sinistra, di destra e pure di centro - è che la politica non costasse, non avesse bisogno di finanziamenti pubblici e che, quindi, la loro abolizione avrebbe aperto la strada a un futuro meraviglioso dove ogni commistione sarebbe stata eliminata, ogni zona grigia bonificata, ogni spreco azzerato, ogni indebita pressione respinta al mittente. E in tal modo il Belpaese si sarebbe trasformato nell’agorà dell’etica politica, nella metafora della trasparenza, nel Parnaso dei meriti, delle competenze e della condivisione, mentre dai colli fioriti pendono caprette belanti, donzellette vengono dalla campagna e sapienti falegnami forgiano con il truschino preziosi utensili per la sagra del vino novello.
Comico. Ridicolo. Grottesco. Regressione infantile e infantilista di un paese bambino, capace solo di farsi imbesuire dal primo imbonitore di piazza che passa, dal primo fanfarone tuittarolo che mitraglia banalità sui social, evitando così di fare i conti con il pane duro della politica. E della vita, che viaggia su binari diversi e opposti a quelli tratteggiati nel nostro mondo di marzapane. La politica costa. Punto. E costa tanto. E quindi va finanziata. Con i soldi pubblici. I soldi nostri. Cerchiamo di ficcarcelo bene in testa. I soldi nostri. Perché se eliminiamo un sistema di finanziamento pubblico ai partiti o come diavolo si fanno chiamare adesso, non sgorgano affatto illibatezza e rigore, quanto invece il circo dei traffichini, dei mezzani, dei sensali, dei personaggetti criminogeni, dei profili lombrosiani, tipo quelli riemersi in questo ennesimo scandalo di favori e aderenze, che fanno il giro delle sette chiese per finanziare in maniera subdola e ricattatoria tutti quanti, dalla destra alla sinistra passando per il centro e, soprattutto, per i santoni dell’onestà, che non hanno mancato di coprirsi di ridicolo e di esporsi a una figura di palta di valore europeo. E il fatto che la vecchia legge fosse una porcheria, che i partiti storici si fossero mangiati pure le gambe del tavolo e che la prima Repubblica galleggiasse su uno sterminato e condiviso finanziamento illegale della politica, come denunciato con ferocia nel memorabile discorso parlamentare di Bettino Craxi del 3 luglio 1992, non cambia di un centimetro la questione.
Il punto è dirimente. Se togli i soldi pubblici alla politica, impedisci a chi non ne ha e a chi non cerca favori da nessuno - perché c’è pure qualcuno così! - di poterla esercitare e, soprattutto, la poni in una condizione ancillare rispetto ai poteri forti, ai quali deve chiedere contributi con il cappello in mano, e la rendi totalmente permeabile alle pressioni e alle ingerenze, anche a quelle più indebite. Ci vorrebbe qualcuno che avesse l’onestà intellettuale di dire questa verità ai cittadini. Ma da noi non si usa. Da noi si preferisce indottrinare il popolo bue con slogan da piazza del mercato, mentre i soldi si stivano in maniera opacissima dentro fantomatiche fondazioni, gestite da tutti i potenti ed ex potenti del palazzo, grazie alle quali i soliti noti continuano a giocare al solito gioco. E indovinate un po’ chi sono quelli che perdono sempre?
@DiegoMinonzio
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