Cronaca
Giovedì 14 Giugno 2018
Flat Tax e pensione a “quota 100”
Ecco l’impatto sulle nostre tasche
Sono i due principali provvedimenti annunciato dalla maggioranza di governo che, se attuati, avranno un notevole ricaduta sulla vita degli italiani
La Flat Tax è uno dei cavalli di battaglia del centrodestra e soprattutto della Lega Nord, una delle promesse fatte in campagna elettorale e tra i primi provvedimenti che il nuovo governo vuole attuare. Sostituirà l’attuale Irpef, cioè la tassa che lo Stato preleva a chiunque percepisca un reddito in quanto lavoratore dipendente, autonomo oppure derivante da imprese, capitali, terreni o fabbricati. L’Irpef è un’imposta progressiva, con una percentuale che si alza proporzionalmente al reddito. In sostanza, chi guadagna di più, paga di più. Attualmente chi non raggiunge gli 8000 euro all’anno non paga nulla, fino a 15 mila euro paga il 23% (per la parte dagli 8000 in su), fino ai 28 mila il 27% (dai 15000 in su) e così via fino al 43% dovuto a chi guadagna oltre 75 mila euro all’anno.
La Flat tax invece è «piatta», cioè con un’unica percentuale costante affiancata da un sistema di deduzioni e detrazioni per i meno abbienti. Nel contratto di governo firmato dal Movimento 5 Stelle e Lega Nord l’argomento non è stato trattato nel dettaglio proprio per permettere all’esecutivo di studiare la rivoluzione fiscale con una soluzione virtuosa per le tasche dei cittadini e sostenibile per le casse dello Stato. Dalle prime bozze della nuova imposta più che di Flat Tax però bisognerebbe parlare di Dual Tax, perché nelle intenzioni del governo dovrebbero esordire due aliquote: una al 15% e una al 20% per i redditi sopra gli 80 mila euro). Non essendo più progressiva, cambierà notevolmente la tassazione per i cittadini italiani. Ma quale sarà l’impatto sulle classi di reddito? Chi risparmierà di più , rispetto al sistema attuale, saranno i redditi più alti. Chi dichiara oltre 55 mila euro, ad esempio, avrà le tasse più che dimezzate. I vantaggi fiscali calano man mano ci si avvicina ai redditi più bassi: chi guadagna intorno ai 30 mila euro non avrà nessun beneficio o quasi.
Il Sole 24 Ore ha pubblicato un’utilissima infografica riassuntiva in cui ogni cittadino può verificare se cambierà la sua situazione fiscale.
«In rapporto ai guadagni dichiarati, i risparmi promessi dalla Dual tax si fanno più rilevanti nella fascia fra i 60mila e gli 80mila euro, si riducono un po’ intorno ai 100mila euro e risalgono sopra, dove però i contribuenti interessati diventano rari – si legge nell’analisi del Sole -. Scendendo nella piramide dei redditi, invece, anche i benefici si riducono, fino ad azzerarsi per le fasce più basse dove dovrebbe scattare la clausola di salvaguardia che mantiene l’attuale sistema di aliquote e detrazioni quando è più conveniente della proposta giallo-verde. Un’incognita non da poco, quest’ultima, sull’obiettivo della semplificazione, perché per un’ampia fascia di contribuenti imporrebbe di mettere a confronto due sistemi fiscali diversi per individuare il più conveniente».
E quanto costerà alle casse dello Stato? Secondo i primi calcoli costerebbe tra i 45 e i 50 miliardi. La tassa piatta potrebbe però essere applicata per gradi, partendo dalle imprese, con un impatto più contenuto. Il ministro degli Interni Matteo Salvini ha annunciato che già nel 2018 saranno poste le basi per passare dall’attuale sistema fiscale a quello con la tassa piatta. Il costo complessivo è appunto di circa 50 miliardi ma ancora non sono state fatte stime per la sola applicazione alle imprese. La riduzione dell’Ires dal 27,5% al 24% era costata circa 3 miliardi mentre l’Iri al 24% per le società di persone e le ditte individuali è costata quasi 2 miliardi. Bisognerà quindi aspettare di capire gli eventuali paletti a una introduzione graduale della tassazione piatta per una stima aggiornata dei costi.
PENSIONI – L’altro capitolo riguarda le pensioni, per cui il governo vorrebbe introdurre la famosa «Quota 100». La riforma allo studio del Governo Lega-M5S, a guardare le prime indiscrezioni sul dossier sul tavolo del Governo Conte, potrebbe avvantaggiare soprattutto i lavoratori più «forti» come gli uomini residenti al Nord e con impieghi più stabili mentre potrebbe portare ad un’uscita più lontana nel tempo le donne e coloro che hanno avuto lunghi periodi di disoccupazione e cassa integrazione.
Secondo le prime indiscrezioni, in attesa che i progetti siano definiti nei dettagli, sembrerebbe possa essere accantonata l’esperienza dell’Ape social ma anche la pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età anagrafica prevista ora per i lavoratori precoci impegnati in attività gravose o per quelli e che pur contando su questo numero di anni di contributi ora sono disoccupati. In pratica si lavora a un’ipotesi di quota 100 con almeno 64 anni di età (e quindi almeno 36 di contributi) o un’uscita con 41 anni e mezzo di contributi escludendo dal computo però i contributi figurativi (includendo al massimo due, tre anni).
Ecco alcuni esempi di chi potrebbe guadagnarci o chi perderci nel 2019 rispetto alla situazione attuale:
IMPIEGATO PUBBLICO NATO NEL GENNAIO 1955 CHE LAVORA DALL’82: CI GUADAGNA, potrebbe andare in pensione nel gennaio 2019, a 64 anni con 37 anni di contributi. Con le regole attuali resterebbe invece al lavoro fino al 2022, uscendo dopo i 67 anni di età dato che dovrebbe esserci un nuovo scatto per l’aspettativa di vita.
DONNA ORA DISOCCUPATA NATA NEL GENNAIO 1956 CHE HA LAVORATO DAL 1985 al 2015: CI PERDE. Se l’Ape social continuasse nel 2019 potrebbe chiedere a 63 anni e 5 mesi di avere il sussidio dato che è ha esaurito da oltre tre mesi la Naspi, è disoccupata e ha almeno 30 anni di contributi. Le madri, al momento, hanno poi un maggiore ’scontò sui contributi per ogni figlio: un anno per figlio con un massimo di due anni. Con le nuove regole in arrivo, non avendo i contributi necessari alla quota 100 potrebbe dover aspettare - se non ci sarà una clausola di salvaguardia ad hoc - i 67 anni andando quindi nel 2023 (a questo andrà aggiunta la nuova aspettativa di vita nel 2021 e nel 2023).
LAVORATORE PRECOCE NATO ALL’INIZIO DEL 1960 CHE LAVORA DA 1978 CON LUNGHI PERIODI DI CASSA INTEGRAZIONE, impegnato in attività GRAVOSE. CI PERDE: Con le regole attuali uscirebbe nel 2019 con 41 anni e cinque mesi di contributi (l’anno prossimo scatta l’aumento di cinque mesi legato all’aspettativa di vita).
Con le nuove regole dai 41 anni e mezzo di contributi necessari verrebbero esclusi alcuni anni di contributi figurativi previsti dalle regole sulla cassa integrazione e dovrebbe aspettare di avere 43 anni e tre mesi di contributi e uscire con la pensione anticipata.
LAVORATORE NATO NEL 1956 IMPIEGATO IN UNA GRANDE AZIENDA DAL 1978 SENZA AVER MAI AVUTO PERIODI DI CONTRIBUZIONE FIGURATIVA: CI GUADAGNA; con le nuove regole andrebbe in pensione nel 2019 con 41 anni e mezzo di contributi. Con le regole attuale dovrebbe aspettare di raggiungere almeno i 43 anni e tre mesi di contributi uscendo nel 2021 (e subendo probabilmente un nuovo aumento dell’aspettativa di vita).
PENSIONATO «D’ORO”: CI PERDE, MA NON E’ DETTO: se scattano i tagli alle pensioni superiori ai 5.000 euro netti (circa 8.500 euro lordi) per la parte del trattamento non legata ai contributi versati ci perde circa il 5-6% dell’assegno. Ma se in contemporanea viene introdotta la flat tax facendo parte della fascia reddituale più alta ci guadagna comunque con un vantaggio che potrebbe superare il 28% dell’importo netto attuale.
Per la nuova riforma delle pensioni il contratto indica una spesa di circa 5 miliardi, confermata dall’estensore della proposta leghista, Alberto Brambilla che, anzi, è convinto che si possa spendere anche meno. La stima è stata fatta immaginando quota 100 con un minimo di 64 anni di età e l’utilizzo al massimo di due anni di contributi figurativi. Non solo, si prevede anche il ricalcolo con il sistema contributivo per il periodo tra il 1996 e il 2012 anche nel caso che il pensionando sia nel sistema retributivo (abbia quindi cominciato a lavorare prima del 1978, ndr). Stessi paletti che potrebbero valere anche per «quota 41» per le uscite anticipate rispetto all’età di vecchia, che Salvini ha indicato però come «obiettivo finale». Secondo le stime di Stefano Patriarca, esperto di previdenza e a lungo consulente di Palazzo Chigi, gli interventi costerebbero più del doppio, 12 miliardi, cifra che potrebbe scendere di 2-3 miliardi se si introducesse anche il ricalcolo contributivo. Per il presidente dell’Inps Tito Boeri invece la nuova riforma costerebbe 15 miliardi il primo anno e 20 miliardi a regime.
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