Come per i governi precedenti, anche l’attuale esecutivo è chiamato a misurarsi con la necessità di ridefinire il ruolo dello Stato sociale e gli ambiti di intervento pubblico nel sistema economico. Si tratta di un problema spinoso che impone di dare la giusta priorità alle politiche del lavoro tenuto conto che, da tempo, nel corpo sociale serpeggia la convinzione che, nel nostro paese, non ci sia più futuro né per le nuove generazioni né per i cinquantenni, troppo giovani per la pensione ma troppo vecchi per una ricollocazione. Il tema del lavoro, pertanto, resta drammatico: bastano pochi dati per provarlo. In Italia il 23% della forza-lavoro si compone di “Neet”, cioè di soggetti che non studiano, non lavorano e non seguono alcun percorso formativo.
Il tasso di disoccupazione giovanile, specialmente nel Mezzogiorno, non consente più allo Stato di garantire quella rete di sicurezza sociale che la recessione ha reso insostenibile. Stiamo pagando a caro prezzo la mancanza di una politica industriale da cui emerge la peculiarità, tutta italiana, dell’assoluta mancanza di programmazione. Malgrado i proclami, in tema di lavoro anche l’attuale governo sembra annaspare. Luca Ricolfi, che è sempre stato un sostenitore di Matteo Renzi, ha recentemente elencato le inadempienze dell’attuale esecutivo in tema di lavoro: si è persa ogni traccia del “codice semplificato del lavoro” e del “contratto a tutele crescenti” caro al prof. Ichino; il decreto Poletti sta progressivamente “evaporando” sotto i colpi della Cgil e della sinistra del Pd; non si sa più nulla del famigerato “Jobs act” che, a parte le fole pirotecniche raccontate dal premier, continua ad essere un’indecifrabile nebulosa.
Finora, le uniche misure adottate dal governo Renzi hanno per oggetto la cosiddetta “acausalità” del contratto a tempo determinato che consentirebbe ad ogni datore di lavoro di assumere ricorrendo ad un contratto triennale rinnovabile complessivamente cinque volte. Questa misura rientra nel quadro di quella flessibilità che, secondo la vulgata neoliberista, costituirebbe lo strumento migliore per combattere efficacemente la disoccupazione.
In realtà, non è così, come si evince da alcuni dati significativi in tema di apprendistato. Nel 2012, infatti, la percentuale di apprendisti, sul totale dei giovani occupati, ammontava ad appena il 13,9%. Non solo, l’adozione di questa tipologia contrattuale non è servita ad aumentare l’occupazione giovanile dato che la trasformazione in contratti a tempo indeterminato è risultata pressocchè irrilevante.
Sarebbe utile ricordare che la vera flessibilità presuppone l’esistenza di adeguati sussidi in grado di supplire alla “vacanza” salariale derivante dal passaggio da un impiego all’altro. In caso contrario, la flessibilità è solo un espediente demagogico che serve ad occultare la verità di una precarietà che nessuno, neppure Matteo il Magnifico, appare in grado di risolvere. Ci dica esattamente, il premier, come intende rilanciare l’occupazione per ridare speranza ad un paese ormai ridotto allo stremo e per evitare che l’art. 1 della Costituzione resti solo una battuta di spirito.
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