Nella stessa barca. Risuona da sempre la lamentela del piccolo imprenditore: non solo deve pagare sempre più tasse, non può mai preventivare quante siano. E ciò rende terribilmente difficile investire.
Un ritornello ora sulle labbra anche dei lavoratori che ogni giorno varcano il confine per andare a lavorare in Ticino. Sì, i frontalieri, ieri al centro del vertice della Regione. Perché è chiaro che non siano felici del fatto che la tassazione sarà destinata a crescere gradualmente nei prossimi dieci anni: chi lo sarebbe?
Ma c’è un tarlo più minaccioso: adesso dovranno appunto pagare le imposte anche in Italia, il che significa – amaramente è stato ribadito – con estrema incertezza. Non solo per il meccanismo ancora confuso e graduale, bensì perché si torna nella patria del rimescolamento di carte e della retroattività.
L’accordo è stato raggiunto tra Roma e Berna, ora passerà alla firma dei ministri e all’approvazione dei rispettivi Parlamenti. I frontalieri – 62mila, di cui più di 24mila comaschi – per la prima volta sono usciti allo scoperto, anche con la mobilitazione pubblica di settimana scorsa, il Frontaday. Visto il tradizionale riserbo – anche perché in Ticino si fa in fretta a perdere il posto – già questo è un campanello d’allarme. Ieri erano lì, ad ascoltare il capo negoziatore Vieri Ceriani, ma soprattutto decisi a consegnare il loro promemoria.
Non si fidano dell’Italia. Quell’Italia che magari borbotta (non è così anche a Como?): «Sì, ma guardate che stipendi prendono in Svizzera». «Vero- replicava un lavoratore ieri a Milano – ma se mi lasciano a casa, tasche vuote». Proprio lui raccontava di come prima fosse stato un imprenditore in nel nostro Paese e ci avesse lasciato le penne, tra fisco e burocrazia. Trovare un lavoro zero, perché spesso le aziende cercano la figura che assomiglia al leggendario unicorno: giovani e con esperienza. Allora, si aprono le porte della Confederazione elvetica: lì almeno ti ricompensano se vali, faceva notare. Ma in caso di problemi o di scarso lavoro, bye bye senza rancore.
Lo svantaggio – la scarsità di garanzie – rimarrà. Il beneficio si ridurrà. E il territorio? Se bevo un caffè, se mangio al ristorante, non lo faccio a Ginevra, bensì a Como, ribadiva un frontaliere.
Forse il vero nodo è davvero nell’aggettivo che accompagna la parola accordo: fiscale. Perché il lavoro passa da questo aspetto, ma non ne viene esaurito. Perché parliamo di persone, famiglie, comunità.
E affiora la sfiducia verso il nostro Paese e la sua confusione alleata della burocrazia. Arduo non capirne le ragioni, quando in questi giorni all’Asl di Varese i frontalieri hanno dovuto sborsare quattrini per la sanità, a Como invece no. Dipende dall’interpretazione. Questo termine spaventoso che complica la vita all’Italia.
Tuttavia, a volerci consolare in qualche modo, noi e i vicini ci assomigliamo parecchio. I nostri lavoratori si fidano di più di Berna? Il Ticino, neanche un po’. E osservando le recenti novità normative –il nuovo albo sui padroncini o anche solo un compendio della riforma fiscale – viene il dubbio a tratti che siano state vergate da funzionari italiani.
Nella stessa barca, sono anche comaschi e ticinesi, le altre aree di frontiera e i Cantoni confinanti: forse varrebbe la pena partire dagli aspetti positivi che ci uniscono e dal lavoro portato avanti insieme in questi anni, pur tra diffidenze e borbottii. Il competitor oggi è lo sconfinato mondo e dividersi a suon di scaramucce offre solo la garanzia di esserne schiacciati. Le recenti partenze di imprese dal Ticino in fondo sono un promemoria in questo senso.
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