Visto che non c’è nulla di più inedito del già edito, visto che gli anniversari, nonostante tutto, a qualcosa servono e visto che i cinquant’anni dell’assassinio di Luigi Calabresi, in particolare, servono a moltissimo, siete tutti invitati a fare questo semplice esercizio.
Andate su Google, digitate “L’Espresso lettera Calabresi” e guardate l’elenco composto dai 757 nomi che hanno firmato il celeberrimo appello contro il commissario, pubblicato sulla (allora) celeberrima rivista il 13 giugno 1971. Guardate bene quei nomi - c’è l’elenco completo, ma ce n’è anche uno selezionato con i personaggi di maggior rilievo - guardateli bene, uno per uno. Ci sono tutti. Registi, scrittori, poeti, architetti, intellettuali, storici, filosofi e, naturalmente, giornalisti, figurarsi se quelli potevano mancare. Tutto l’establishment culturale degli anni Sessanta e Settanta, che poi sarebbe andato avanti a tirare le fila del dibattito politico italiano anche nei decenni successivi, pur spaccandosi e disperdendosi nei mille gangli del potere, ha firmato quel manifesto.
Un testo di rara infamia, vergognoso come pochi altri nella storia schifosa e tragica del nostro paese, nel quale si accusava Calabresi, senza alcuna prova, della morte dell’anarchico Pino Pinelli. Addebito che portò al suo isolamento nella società e anche all’interno delle forze dell’ordine e, di fatto, alla sua morte per mano del militante di Lotta Continua Ovidio Bompressi, che gli ha sparato alle spalle davanti a casa per poi scappare sull’auto guidata da un altro militante, Leonardo Marino. I mandanti dell’assassinio, come consegnato agli annali da una sentenza passata in giudicato, erano Giorgio Pietrostefani, capo del servizio d’ordine di Lotta continua, poi migrato dalla rivoluzione proletaria alla dirigenza di Eni e Snam e oggi latitante e, come noto, ma forse non abbastanza, Adriano Sofri, quello che da giovane faceva il leader di Lotta continua e che mandava i suoi scagnozzi ad ammazzare i commissari di polizia per un fatto che non avevano commesso e che, nonostante questo, ha passato gli ultimi trent’anni - e continua ancora adesso – a farci lezioni di etica e di morale, protetto, coccolato e vezzeggiato dalla sua lobby, oggi più viva che mai.
Perché questa è l’Italia. E sarà il caso di non dimenticarselo mai, visto che il vizio di linciare le persone perbene inermi e indifese - in questi giorni, tra l’altro, ricorre pure l’anniversario della morte di Enzo Tortora, altra vicenda che fa schifo, che fa senso, che fa vomitare - continua a essere il fiore all’occhiello del nostro meraviglioso sistema mediatico-giudiziario.
Ma la cosa impressionante di quell’appello, ancor di più dei contenuti, dei toni, delle minacce plateali, delle notizie totalmente false - tipo quella scritta in un articolo a fianco del manifesto su Pinelli defenestrato da Calabresi con un colpo di karate alla nuca - è la qualità dei firmatari. Qualità assoluta. Intellettuali di prim’ordine. Personaggi che hanno dato lustro alla cultura italiana lasciandoci in eredità in molti casi opere di altissimo livello, veri classici del cinema, dell’arte e della letteratura. E la cosa fa pensare. E’ facile incasellare la nefandezza commessa da un criminale, da un servo, da un bardotto, da un venduto: visto il soggetto, non poteva che andare così. Invece in questo caso - ripetiamo, scorrete con attenzione la lista dei firmatari celebri - è tutto diverso.
E’ vero che l’acutissima teoria gramsciana di occupazione sistematica di tutti i gangli del potere culturale - scuola, università, cinema, teatro, editoria, giornali - era stata messa in pratica con grande solerzia lungo tutto il dopoguerra dal Pci e non era stata stoltamente contrastata dal mondo moderato, troppo occupato a pensare alla ricostruzione e agli affari. Ma questo monopensiero antagonista, questo vangelo contro i poteri costituiti, in sostanza contro la Dc e il suo “regime”, che per ovvie ragioni storiche non poteva che nascere a sinistra, essendo la parola “destra” del tutto screditata e impronunciabile dopo il ventennio fascista, è andato via via trasformandosi in conformismo, in fariseismo, in tartufismo, in moralismo, in terrazzismo, in arroganza culturale, in sindrome da superiorità antropologica, in retorica resistenziale e antifascista, in logica del branco che buttava fuori dall’arco costituzionale chiunque non fosse sintonizzato sulle stesse parole d’ordine.
Insomma, è diventata lobby trasversale di mero potere. E si sa che gli intellettuali, non tutti - Montanelli e Pansa, ad esempio, non hanno firmato - ma tanti, checché pontifichino e catoneggino, subiscono da sempre il fascino irresistibile del potere. Ecco spiegato il motivo di quell’elenco così prestigioso e, al contempo, così vergognoso.
La lobby di Lotta continua ha dimostrato la sua intatta possanza in quel caso e per tutti i decenni successivi, basti pensare alla violentissima campagna pro Sofri che lungo gli anni Ottanta e Novanta, dopo il pentimento di Marino, è stata orchestrata dagli ex militanti, anche se erano poi finiti su fronti opposti, chi a destra, chi a sinistra, chi al centro, chi nelle grandi aziende. Non era questo l’importante. Il dato saliente era la potenza di quel richiamo della foresta, più forte di tutto e così determinato da cercare in ogni modo, tra depistaggi mezzo stampa e televisione, leggi ad personam, revisioni dei processi eccetera di salvare i mandanti dalla condanna. Che invece, per fortuna, è arrivata lo stesso.
Certo, oggi gli anni di piombo sono finiti. Però non il vizio degli intellettuali di muoversi con la logica del branco, seguendo il loro personalissimo mainstream, che nulla ha a che vedere con la realtà dei fatti, con gli interessi della nazione e, soprattutto, con il rispetto delle persone. Togliete la lotta armata e mettete la guerra in Ucraina - ma anche il Covid e i vaccini - togliete la carta stampata e mettete i talk show e i social. Dove sta la differenza?
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