Gli italiani e la tragedia
che diventa una farsa

L’Italia, che non a caso è il paese del melodramma, non è fatta per le tragedie. Non che gli manchino e che gli siano mancate in passato, che tanto lunga e ricca di catastrofi e disastri è la sua storia millenaria, ma non ne possiede la dimensione. Non ne ha la statura. Non ne interpreta la nobiltà. Qui da noi, chissà perché, anche il fatto più terribile, disperante e sanguinoso, dopo solo qualche giorno inizia a trascolorare inesorabilmente nel grottesco.

Prendete un argomento a caso, chessò, i vaccini, di cui come noto non parla nessuno. Beh, se non ci fosse da piangere, ci sarebbe da ridere. Ma non solo da ridere: da sghignazzare, da smascellarsi, da sbudellarsi, da tenersi la pancia per il fulgido esempio di organizzazione teutonica, di illuminata strategia pianificatoria, di formidabile pragmatismo tutto adeso, coeso e proteso al conseguimento della grande priorità nazionale: vaccinare tutti gli italiani nel più breve tempo possibile. Obiettivo che i nostri eroi stanno perseguendo con la consueta solerzia e il consueto acume progettuale.

Ora, nei giorni scorsi il nuovo commissario straordinario per l’emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo, che di certo non è uno sprovveduto e, vista la sua lunga e qualificata esperienza, sa bene con chi ha a che fare, dopo aver verificato e stigmatizzato i reiterati sprechi di dosi vaccinali finite al macero a causa dell’impressionante disorganizzazione che vige nel nostro apparato sanitario se ne è uscito durante la trasmissione televisiva “Che tempo che fa” con una frase che rappresenta tutta la nostra storia, tutto il nostro essere italiani: “Se a fine giornata avanzano delle dosi, bisogna vaccinare anche il primo che passa”.

Tutto sommato non gli si può dare torto, con la situazione che viviamo e quattrocento morti al giorno - quattrocento morti al giorno! ma ci rendiamo conto? - buttare anche una sola dose è peccato mortale e quindi davvero meglio farla ai riservisti o a chiunque si trovi in quel momento nei pressi delle postazioni mediche. In questi frangenti bisogna essere pratici e dimenticarci dei busillis e del latinorum. Ma, contestualmente, a nessuno sarà sfuggito che una frase del genere in un paese come questo apre le gabbie al liberi tutti, al tutti a casa, alla più consolidata genialità italiana, con tanto di “piano vaccinale creativo” al seguito.

E se poi ci aggiungiamo l’efficienza della più ricca ed eccellente Regione d’Italia, che nella giornata di ieri è riuscita nell’impresa napoleonica di non comunicare ai docenti prenotati il loro turno di vaccinazione così da convocare solo sedici persone al posto delle settecento previste - tutto vero: è accaduto all’ospedale Sant’Anna di Como, costringendo i malcapitati addetti ad attaccarsi ai telefoni per cercare tutti i riservisti dell’ultimo minuto possibili e immaginabili; ma per fortuna a Lecco e Sondrio invece le cose sono andate meglio - la frittata è fatta.

Perché se questo è l’andazzo, allora non può che entrare in scena la nostra secolare arte di arrangiarsi che, brandendo come una clava l’accorato appello del generale Figliuolo, al quale di certo il suo recente e pericolosissimo incarico in Afghanistan sembrerà ogni giorno che passa una passeggiata di salute rispetto al ginepraio nel quale si è infilato, ha già prodotto inquietanti assembramenti di questuanti molesti che a ogni ora del giorno e della notte si aggirano davanti ai presidi vaccinali e, di tanto in tanto, infilano la testa dentro il tendone ponendo ai poveri medici la fatidica domanda: “Avete per caso un AstraZeneca scaduto che avanza?”.

E saranno migliaia. Occhiuti, famelici, spietati, capaci di esibire la stessa pervicacia dei giornalisti culturali all’assalto del buffet alla fine del convegno sulle radici storiche della filologia romanza, pur di riuscire a imbucarsi e a strappare l’agognata dose vaccinale: umarell allenati da ore e ore di cantieri stradali in centro, reduci della battaglia di Amba Alagi, rappresentanti dell’associazione vedove cattoliche, nazisti dell’Illinois, prepensionati dell’Isis, invalidi della Grande Guerra, sindacalisti del catasto di Aci Trezza distaccati alla Motorizzazione di Aci Catena, blogger falliti, nobildonne dal lùteo pallore dedite alla canasta delle cinque, ex sessantottini con l’uzzolo del teatro alternativo in calzamaglia, poeti dell’alto lago, giocatori di scacchi e di pallamano, le amichette minorenni, con relativa numerosa e chiassosa parentela, del direttore del giornale locale, il fratello buono di Keyser Soze, il Pagliaccio Baraldi, i superstiti della Grande Inter e tutto il resto delle mille categorie che, a torto o a ragione, si ritengono indispensabili per far andare avanti questo pazzo pazzo paese. E che, quindi, si sentono in diritto di qualificarsi come il “primo che passa” prioritario rispetto ad ogni altro “primo che passa”.

Si scherza, naturalmente. Ma neppure così tanto, purtroppo. Perché siamo così? Perché siamo sempre così? Perché bisogna interpretare sempre e comunque il ruolo degli italiani? Non viviamo forse nel territorio più colto ed evoluto e performante del paese, dell’Europa e del mondo intero? Perché, che governi la destra, il centro o la sinistra, dobbiamo invece fare sempre gli italiani, gli insopportabili italiani, i macchiettistici, ridicoli e spassosissimi italiani? Con l’aggravante che gli altri non è che se la cavino tanto meglio di noi - la verità è che del virus e della pandemia nessuno, ma proprio nessuno, i media per primi, ci ha capito una mazza - ma noi infiocchettiamo il nostro peggio sempre con quel non so che di caricaturale, di pizza e fichi, di baffo nero e mandolino che ci rende unici al mondo.

Ma forse abbiamo riso abbastanza. Forse non abbiamo più voglia di ridere. Visto che, per fortuna, abbiamo un premier che parla poco, se ne stessero zitti anche tutti gli statisti dei vari partiti e si mettessero a lavorare. Ammesso, e non concesso, che conoscano il significato di questa parola.

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