Certo, la possibilità di venire contagiati dal virus fine di mondo e di concludere la propria piccola esistenza tra spasmi, febbri e convulsioni mentre i tuoi figli finiscono in mezzo ai cartoni perché mai e poi mai riusciranno a trovare uno straccio di posto di lavoro e i tuoi parenti avidi e vampireschi si sbranano per arraffare le briciole della tua misera eredità è una prospettiva davvero terribile. Ma, insomma, nella vita c’è pure di peggio. Mai stati a pranzo con un presidente di Regione?
Ora, è vero che Matteo Renzi è il principe dei ruffiani, il re dei sollevatori di
polvere, il maharaja dei demagoghi da avanspettacolo, il virtuoso dei conti ballerini che prima ci sono e poi magicamente scompaiono per riapparire contrari e opposti appena un secondo dopo, l’esteta del fanfaronismo massmediologico che della giovine età ha fatto una formidabile arma di seduzione di massa. Insomma, come dicono i più raffinati nella città eterna, un cazzaro senza precedenti nella storia patria, al cui confronto pure il mitologico Berlusconi dei tempi d’oro sembra un travet forforoso saltato fuori del convento di Santa Dorotea. E che da vero genio del lisciamento di pelo e del vellicamento della panza dell’italiano medio non sbaglia un colpo nell’esporre al pubblico ludibrio le categorie più odiate dalla nazione - politici, sindacalisti e magistrati, senza infierire sui giornalisti, anche perché sono già talmente sdraiati al cospetto del nuovo padrone del vapore che non ce n’è neppure bisogno – e distoglierne quindi l’attenzione dalle sue mille giravolte e dalle sue mille e una promesse non mantenute.
Ma detto questo, è incredibile, incredibile davvero, la faccia di bronzo di certi sarchiaponi di destra, di centro e di sinistra al comando dei baracconi regionali nell’indignarsi con il ditino alzato e gli occhi di bragia a fronte del taglio di quattro miliardi (il 2% della spesa regionale) previsto dalla freschissima – e indeterminatissima - legge di stabilità. Vittorio Feltri – che sarà quello che sarà, ma che quando è in forma se li mangia ancora tutti in insalata – in un velenoso editoriale di qualche mese fa contestava la soppressione delle Province ribadendo che il vero problema dell’Italia sono invece le Regioni, venti apparati colossali e iperburocratizzati “trasformatisi negli anni (come si evince dalle numerose inchieste giudiziarie in corso) in associazioni per delinquere, macchine specializzate nello sperpero dei nostri quattrini, fonti di corruzione, mangiatoie incontrollate, soltanto per garantire al cittadino una gestione più o meno buona (spesso pessima) della salute pubblica”. I toni saranno eccessivi, di certo tra la Lombardia e la Campania c’è un abisso, ma si fa fatica a dargli torto.
Il disastro dei bilanci è il prodotto più devastante della riforma del titolo quinto della Costituzione, che ha trasformato le Regioni in Stati indipendenti, con tanto di “governatori” gonfi come rospi quasi quanto l’esplodere della spesa pubblica, cresciuta in un decennio del cinquanta per cento tra l’indifferenza generale e il plauso della stampa di regime, che si è bevuta la fanfaluca dell’autonomia, del decentramento e del padroni in casa nostra. Quella lì è una roba da paesi seri, con storia, costumi ed etica politica innestata nel profondo delle corde di una borghesia conscia del proprio ruolo di visione e progettualità. Allora funziona. Nella repubblica degli albertosordi urge invece il più tirannico e dispotico e inflessibile dei centralismi prefettocratici, altrimenti appena ti giri ti becchi sul bilancio - e quindi a spese nostre - i mutandoni in tinta del governatore del Piemonte, le analisi sulle cipolle rosse di Tropea di quello della Calabria, la sponsorizzazione della Sagra della Fregnaccia di quello dell’Umbria, lo studio sugli scoiattoli di quello della Lombardia e i consulenti sulle biblioteche nel deserto della Mauritania del collega friulano.
Ma questi sono i classici sprechi cialtroneschi che vanno a finire negli articoli di costume dei giornali o nella sceneggiatura di qualche capolavoro dei fratelli Vanzina. La vera fogna è però un’altra: le società partecipate e controllate costate un miliardo in quattro anni nella sola Sicilia, la proliferazione delle inutili e costosissime sedi all’estero, la mostruosa impennata delle assunzioni clientelari, l’aumento della spesa sanitaria del venti per cento, la marea di privilegi retributivi e pensionistici dei consiglieri, al punto che oggi un terzo del bilancio del Lazio è destinato al pagamento dei vitalizi, gli uffici stampa faraonici, le auto blu a pioggia e mille altre facezie raccontante ieri da Sergio Rizzo sul “Corriere” e da Mattia Feltri sulla “Stampa” e, qualche tempo fa, nello spassosissimo libro “Spudorati” di Mario Giordano.
E poi, se non bastasse ancora, non bisogna mai dimenticarsi della prova delle prove, dalla pistola fumante che inchioda tutti alle proprie responsabilità: l’esame Lombroso. Concentratevi un attimo e fatevi venire in mente le facce della maggioranza dei consiglieri e assessori che popolano i nostri meravigliosi pirellini. Abbiamo visto, vediamo tutt’ora e purtroppo vedremo in futuro di tutto: gioppini, saltimbanchi, cubiste, donne barbute, uomini salsiccia, cialtronazzi specializzati, imboscati della prima ora, bagaj de l’uratori, Fioriti, Lusi e altri mostri che trascinano con sé in una generale chiamata di correo anche quelli che lavorano sul serio e con onestà, ma che non possono salvarsi dal tritacarne di questa barzelletta di democrazia federale. E su tutto ciò, l’assordante silenzio dei governatori…
Proprio per questo, non fatevi incantare dalle grida di dolore e dalle melliflue minacce di aumento dei ticket o delle addizionali. Loro sanno dove tagliare, ma non possono e non vogliono, perché altrimenti andrebbe in frantumi tutta la struttura di filiere e clientele su cui si basa il potere, in Regione così come a Roma. E’ tanto semplice. Che c’è ancora da capire?
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