Alla fine degli anni Settanta chi scrive questo pezzo militava nelle giovanili del Lecco (non ne vogliano i tifosi comaschi e valtellinesi…) e, onestamente, era un po’ un piccolo fenomeno. Dribbling guizzante, tecnica sopraffina, un piede sinistro dolcissimo, anche se molto incostante, moltissimo “veneziano”, che quando aveva il pallone non lo mollava più - insomma, un po’ un giocatore alla Eriksen, e non si capisce bene se sia un complimento o un insulto - e soprattutto troppo, davvero troppo mingherlino per poter reggere l’urto di ragazzotti già grandi e grossi e con due cosce così.
Visto che la squadra era tra quelle forti e rinomate del territorio, allenatori e dirigenti gli ricordavano sempre tutto il peso di quella maglietta bluceleste gravata dalla nobiltà e storicità del marchio e, quindi, durante gli allenamenti e prima di ogni partita era tutto un predicozzo su quanto fosse importante essere sportivi e rispettare l’avversario e giocare duro e deciso, ma corretto, e che alla fine ci si doveva stringere sempre la mano e che si doveva essere d’esempio per i pulcini e che le nostre mamme e i nostri papà venivano a vederci e dovevamo comportarci da bravi ometti e via decoubertinizzando a raffica. E noi giovanotti del basso lago, tutti lindi, pinti e ulimosi di santità, ad approvare, ad annuire, ad assentire. Undici chierichetti. Undici seminaristi. Undici abatini.
E però una volta in campo, specie quando arrivavano le sfide vere, quelle che decidevano la stagione, torna ad esempio alla memoria un assatanato derby contro il Como, con il quale già ai tempi c’era una leggerissima, impalpabile e davvero anglosassone rivalità - partiva il circo, ululava il richiamo della foresta, si scatenava la legge della giungla. Dopo solo dieci minuti di gioco ognuno di noi campioncini in erba aveva già ricordato al diretto avversario la reale professione di sua madre, le segrete attitudini sessuali di sua sorella (che in quel preciso momento si trovava in un fienile assieme a un paio di stallieri del Congo Belga…), la fedina penale di suo padre, l’indicazione di dove doveva andare dopo la partita, quella di dove avrebbe dovuto infilarsi il suo scarpino con i tacchetti di metallo, quella di dove lo avrebbe aspettato appena finita la doccia e altre piacevolezze che avevano appreso dai canottieri di Oxford e Cambridge e dai figli dei ricchi al circolo del tennis.
Per non parlare dei difetti fisici, che bastava che uno degli avversari, soprattutto se erano quelli con la maglietta azzurro pigiama del ramo inferiore del Lario, mostrasse un naso adunco o un facciotto brufoloso o un apparecchio per i denti di quelli di una volta o la erre moscia o la zeppola o, peggio ancora, esibisse un marcato accento del sud, per far partire una gragnuola di insulti lombrosiani degni dell’indimenticabile scena dell’avanspettacolo nel “Roma” di Fellini: “Le corna de tu madre! A rotolo de coppa!! A bidone de mmerda!!!”. E grazie al cielo che allora non c’erano ragazzi di colore, altrimenti sarebbe scoppiata la guerra nucleare. Bei tempi.
Ora, chiunque abbia giocato a pallone a qualsiasi livello lo sa, il calcio - forse anche gli altri sport, ma il calcio di sicuro - è solo marginalmente un fatto atletico e sportivo, quanto invece ed eminentemente una questione antropologica, culturale. E’ un scontro tra tribù nel bel mezzo di un’arena da corrida. Se comprendiamo questo - ad eccezione degli incompetenti e della stragrande maggioranza dei giornalisti sportivi mainstream, che in quanto giornalisti sportivi, di calcio non capiscono una beata mazza – comprenderemo anche che l’ormai celeberrimo e oggettivamente titanico scontro tra Ibrahimovic e Lukaku, fisicamente e cromaticamente spettacoloso, è una situazione già vissuta mille volte, milioni di volte su tutti i campi del mondo e che verrà vissuta fino a quando il calcio esisterà. E che non può e non deve essere ridotto a una ridicola lezione di educazione civica, a un comizietto perbenista e ipocrita sull’etica dei diritti, ma invece rivendicare la sua dimensione di atto tribale, appunto, nel quale l’uomo, anzi, il maschio, emerge per quello che è.
Uno, Ibrahimovic, è il ragazzo venuto su in un quartiere di disperati, in una famiglia di disperati magistralmente raccontata in un film-documentario trasmesso qualche tempo fa da Sky, a tratti davvero commovente quando Zlatan ricordava l’infanzia schifosa che aveva vissuto, i chili di spaghetti alla bolognese che si mangiava a casa da solo, unico piatto per tutto il giorno, i chilometri che faceva a piedi per andare ad allenarsi, e a volte era così stanco che rubava una bicicletta per arrivare in orario. L’altro, Lukaku, nello stesso identico solco, con l’aggravante oggettiva del colore della pelle. Lo zingaro e il negro. Più tormentati di così…
E il loro cozzare fiammeggiante tutto di personalità, tutto di frustrazione, tutto di astuta provocazione rissaiola, e cafone e violento e teso ad umiliare l’altro nelle corde più intime e riposte, ma al contempo anche solo e soltanto verbale, non può essere normalizzato dentro un’ondata di indignazione moralistica e di politicamente corretto che non vede l’ora di affibbiare la patente del razzista a uno che è nato nella strada e che della strada porta lo stigma, origine della sua forza strabiliante e del suo limite invalicabile. Avete mai visto il quartiere di Marsiglia dove è cresciuto Zidane? Bene, se vi capita, fateci due passi e capirete tutto della testata di quel giocatore meraviglioso.
In una partita vale solo quello che accade. Ibrahimovic ha pagato, perché ha fatto un fallo stupido, che è costato l’espulsione a lui e il derby al Milan, ma ha anche segnato un gol splendido, da fuoriclasse qual è. Punto. Questo è quanto. Tutto il resto è fuffa, pattume perbenista di questa società bolsa, cellulitica e farisea che vuole trasformare ogni cosa in una serata di burraco, in un tè per signore. Dimenticando che, come noto, il calcio non è uno sport per signorine…
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