A un certo punto si è capito perché i liderini del Sessantotto odiavano tanto il potere. Perché non ce l’avevano loro.
Appena portata a termine la presa della Bastiglia, entrati - lindi e pinti, spogliati delle vesti quotidiane piene di fango e di loto - nella stanza dei bottoni, quelli si sono presi tutto. Tutto. Il comando. I soldi. Le relazioni. Le clientele. I mezzi di informazione. Le leve culturali, quelle ministeriali, quelle accademiche e pure quelle curiali. Le speranze e le utopie. Gli ottimi stipendi e le pensioni d’oro. Il diritto di cooptare e quello di annientare. I balconi mediatici da cui pontificare ogni benedetta domenica su ogni santissimo argomento relativo all’universo mondo. Sono diventati, e ancor lo sono, la vera buona borghesia intoccabile, inscalfibile e non rottamabile di un paese distrutto grazie al loro generoso contributo, perché con la scusa di rappresentare la crema della crema della rivoluzione proletaria, hanno tutto mangiato, tutto sbafato e tutto sbracato, per lasciare ai posteri solo ceneri, pianti e stridor di denti.
Adriano Sofri, il suo nome, la sua ombra, il suo profilo incombente, rappresenta per questa gente di potere la cartina al tornasole, il totem, il monolito, il martire angelicato che non può essere discusso e infangato da niente e da nessuno. Nessuno mai osi sfiorare la sua teca inviolabile. Il Redipuglia dei maestri del pensiero. E proprio per questo motivo la polemica scoppiata nei giorni scorsi, dopo la sua nomina a membro degli stati generali del ministero della Giustizia per studiare la riforma del sistema carcerario, non è tanto interessante per lo schierarsi delle posizioni in campo – ogni volta che salta fuori il tema Sofri si sa già che il pomo della discordia si spaccherà in due parti esatte – quanto invece per vedere come sia ancora feroce il richiamo della foresta su tutti quelli che hanno condiviso le gesta e le infamie degli anni di piombo e che vedono incarnata in lui la metafora di un enorme senso di colpa generazionale. Il capro espiatorio di un delirio collettivo. Lui “deve” essere innocente, perché se lui lo è anche tutti i suoi sodali lo sono e sul loro imbarazzante e spesso ignobile passato può finalmente stendersi un velo pietoso.
I compagni dei tempi d’oro di “Lotta continua” e la lunga, anzi, lunghissima lista di grandi intellettuali firmatari del celebre manifesto che ne sosteneva l’innocenza nel caso Calabresi – è un uomo intelligente e colto: come può essere il mandante di un omicidio? - una volta riciclati e una volta arraffate le poltrone, si sono divisi su tutto. C’è chi è andato a sinistra, chi a destra, chi al centro, chi ha scalato le più eminenti posizioni dell’editoria e dell’informazione, chi ha spadroneggiato nel mondo universitario o manageriale, ma da lì in avanti hanno iniziato a scannarsi e a pugnalarsi e a tradirsi e ad azzopparsi a vicenda e a insultarsi nelle aule parlamentari e nei talk show del martedì sera e nei salotti di quelli che contano. Un branco di iene. Ma appena l’eterno ritorno della stagione del terrore fa rispuntare la parola magica - Sofri - tutto cessa, tutto si placa e dopo un attimo di silenzio - un silenzio assordante, un silenzio di neve – si scatena l’istinto di sopravvivenza, la difesa della razza, della propria memoria, della propria gioventù illibata e inconfutabile, della propria superiorità morale e antropologica, il loro essere avanguardia della rivoluzione dei migliori, degli intonsi, degli antisistema, di quelli incaricati dal Dio della storia di raddrizzare quei legni storti degli italiani dalle loro ataviche pochezze.
Mai un dubbio, mai un errore, mai un ripensamento. Apodottici. Dogmatici. Assiomatici. Mai reprobi. Sempre lì, anche dal carcere, con assestata sul groppone una condanna a ventidue anni come mandante dell’omicidio Calabresi, lui e il suo complice Pietrostefani, da quindici anni felicemente latitante a Parigi, loro con il loro Marino fantasma macbettiano, a dare lezioni su qualsiasi giornale di destra, di sinistra e di centro e a commentare e a discettare con il ditino alzato perché insomma, signora mia, in fondo il suo conto con la giustizia l’ha pagato, per la gioia di tutto il sinistrume redazionale pulcioso e forforoso che ha sempre dettato la linea nei giornaloni dove scrivono quelli che la sanno lunga. Il conto con la giustizia, sì. Quello con la storia schifosa e tragica della nostra repubblica dei datteri, di certo no.
La verità è che questa vicenda maleodorante ci fa capire quanto sia erronea e fallace e infantile la nostra idea di un paese spaccato tra destra e sinistra o tra conservatori e progressisti o tra nord e sud. Roba vecchia, roba da Ottocento. Qui l’unica differenza non è verticale, ma orizzontale. Tra quelli che sanno stare al mondo (loro) e che poi per gioco si dividono tra destri e sinistri o tra liberisti e keynesiani e quelli che invece non contano niente (tutti gli altri) e che vengono trattati come parco buoi, come salmerie, come giocattoli, come pupazzi e che mai e poi mai potrebbero permettersi di sdottoreggiare sui destini della nazione dopo aver fatto ammazzare un commissario di polizia. Loro no. Loro si salvano sempre, anche se perdono, anche se uccidono, anche se truffano e intrallazzano. Per loro vale sempre e comunque il contesto storico, le colpe della società, lo Stato che non c’è, il passato che non passa, l’eredità degli anni Settanta, il contesto o forse anche il todo modo, il non potevamo non essere comunisti, ribellisti, antagonisti, lottacontinuisti.
Non esiste alcuna nuova politica e alcun “cambia verso” se non si chiude con la generazione dei Sofri. Sarà meglio che i giovani statisti che si stanno contendendo l’Italia lo capiscano al più presto, se non vogliono che il passato li snervi, li triti e li butti dentro a un secchio. Perché quelli come Sofri, al contrario di loro, sono intelligenti e hanno studiato. Sarà dura mandarli in pensione una volta per tutte.
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