No, meglio non scomodare Voltaire. Sarebbe francamente eccessivo. Perché il clamoroso errore che ha portato in carcere un uomo che in cella non ci sarebbe mai dovuto entrare appartiene più al mondo della superficialità che all’alta filosofia.
In sintesi: una persona viene fermata per un controllo stradale e, trovata con il tasso alcolemico superiore ai limiti, e denunciata. Il caso finisce in Procura che spedisce regolarmente a casa dell’uomo gli atti giudiziari. Lui, alla fine, decide di patteggiare 30 giorni, pena che viene sospesa a una condizione: che accetti l’affidamento ai servizi sociali. Qualcosa però va storto e il giudice revoca la sospensione. La revoca dovrebbe essere notificata al diretto interessato, per dagli il tempo di chiedere una pena alternativa al carcere, ma incombe l’errore. Perché, chissà come, il provvedimento viene inviato a un indirizzo vecchio. E non a quello ben noto agli uffici giudiziari. Ovviamente il diretto interessato non viene trovato e anziché effettuare ulteriori approfondimenti, cautela che dovrebbe valere sempre (ma che dovrebbe essere un faro da seguire senza indugio quando si ha a che fare con un incensurato che ha patteggiato appena 30 giorni di reclusione), viene considerato irreperibile. E a suo carico - nonché a sua insaputa - viene emesso un ordine di carcerazione.
Mettiamoci nei panni di questa persona. Pensiamoci fermati da una pattuglia, dare i documenti agli agenti e sentirci dire: «Deve seguirci, lei è in arresto». Come reagiremmo? Cosa penseremmo dello Stato che ha partorito un simile errore?
Intendiamoci, chiunque può sbagliare. E non è la ricerca del capro espiatorio a interessare in questo caso. Quanto piuttosto denunciare un vizio tipico della burocrazia a qualsiasi livello e in ogni settore: quello di considerare le persone un numero. Sarebbe lampante per chiunque, tranne ovviamente che per la burocrazia, il fatto che un incensurato che ha patteggiato un mese di reclusione non possa ricevere il medesimo trattamento di un rapinatore condannato a 6 anni di carcere. Di fronte a un caso come questo il sistema dovrebbe far risuonare un campanello di allarme e spingere i responsabili del procedimento ad approfondire la questione senza limitarsi a nascondersi dietro a ciò che prevede il codice in questi casi. Costringere un incensurato a vivere l’incubo del carcere per aver bevuto una birra di troppo non è né giusto né serio. Ed è un sintomo preoccupante dei danni che l’applicazione meramente burocratica delle norme può causare.
Fossimo uno Stato dove - come avviene in Francia o negli Usa - una persona trovata con tassi d’alcol nel sangue oltre il consentito fosse costretta a smaltire la sbronza in cella di sicurezza, non ci sarebbe nulla da eccepire. Ma nell’Italia in cui neppure un truffatore incallito finisce in carcere questo discorso non vale. Ciò che conta è un principio di equità e di umanità e di buon senso che non può essere delegato esclusivamente alle rigidità burocratiche.
Fin qui il volto peggiore di questa storia. Ma gli amanti del bicchiere mezzo pieno o del lieto fine è giusto sappiano che in cinque giorni - causa concomitanza con il weekend, altrimenti sarebbero stati meno - due avvocati si sono dannati per far uscire di cella il Kafka lariano. E ci sono riusciti perché, fortunatamente, esistono garanzie che consentono di porre rimedio agli errori. E poi no, non scomodiamo Voltaire, ma Brecht sì: ci sarà pure un giudice a Berlino. E anche a Como.
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