Il lavoro che resta
non va buttato via

Troppo lavoro, meglio andare piano, frenare. Di questi tempi più che un paradosso, sembra una bestemmia. Eppure accade. E non lontano da qui, a Olgiate, dove i 350 dipendenti della Cosmit sono entrati in agitazione, con proteste e blocco degli straordinari subito dopo che l’azienda ha chiesto loro di lavorare anche il sabato e la domenica, secondo il ciclo produttivo che vede le lavorazioni articolate sulle 24 ore.

È bene fissare subito i paletti: il sindacato, forse rendendosi conto di prestare il fianco a una critica scontata, si para dietro l’avvertenza de «non siamo contrari a priori, ma...» intendendo che a finire al centro della contesa non è tanto la “settimana lunghissima” , quanto il metodo scelto dall’azienda per comunicare la scelta e i tempi stretti adottati dalla stessa.

Ma questo è l’aspetto sindacale che sarà oggetto di confronto fra le parti. La sostanza, invece, è altra cosa e se vogliamo molto più preoccupante. Ovvero che, di fronte a un’ondata di commesse in più arrivate sul tavolo della Cosmint e alla necessità di andare incontro alla richiesta del mercato e dei propri clienti per salvare l’uno e gli altri, i dipendenti non ci stanno. Avranno le loro ragioni legate alle condizioni di lavoro, ai rapporti con l’azienda, al repentino cambiamento di prospettiva nel lavoro quotidiano, cambiamento che finisce per investire la sfera privata di ciascuno, ma non può sfuggire a nessuno la contraddizione di un’Italia con il 12% di disoccupati, oltre 3 milioni, e il 40% fra i giovani e dei lavoratori di un’azienda che dicono no - almeno per ora e in questi termini - al lavoro supplementare.

Sono le due Italie a confrontarsi, una spesso maggioritaria e che viene da lontano, l’altra che si affaccia ora sulla ribalta di un mondo globalizzato che, se spesso mette in discussione gli stessi diritti, dall’altro fa della sua dinamicità ed elasticità il segreto del successo e della crescita di Paesi una volta definiti quasi con spregio “Terzo Mondo”.

A parte il rivendicazionismo fine a se stesso, il domani, anzi l’oggi, corre con i tempi e i modi di quest’ultima Italia, che guarda e non capisce le resistenze, magari legittime nello specifico della realtà industriale della Cosmint, a una visione diversa del lavoro. Del resto questa seconda Italia in tanti anni, anche vicini, di benessere ha dovuto assistere al paradosso di un’immigrazione spinta qui dall’offerta di occupazioni “umili” che gli italiani rifiutavano salvo poi accusare gli stranieri di «portare via il posto» ai locali.

Oggi, quando perfino gli immigrati se ne ritornano a casa per mancanza di lavoro, invece in casi come questi torna alla ribalta la prima Italia, quella appunto che, con un posto se non sicuro almeno protetto dalla rassicurante dizione del “tempo indeterminato”, si ferma davanti alla flessibilità indotta dalla necessità di far fronte a un mercato elastico. A questa Italia guarda, con stupore, l’altra fetta di Paese secondo la quale le stesse metodologie del confronto sindacale non tengono conto di un mercato che in un attimo è capace di espellerti se non si poni alla sua stessa velocità.

Per questo la sfida vera, ora e nel futuro, per i lavoratori è sincronizzarsi sui tempi del mondo più avanzato trovando però nel contempo - e qui la sfida è anche per le aziende -, gli spazi di salvaguardia dei diritti e delle condizioni di lavoro, il tutto con l’obiettivo primario di conseguire il risultato necessario. In questa sintesi si possono riunire le due Italie. Il Paese che nascerà forse sarà più competitivo e più giusto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA