Lo sconfitto è una figura universale. Un topos letterario. Un personaggio toccante, straziante, commovente. Perché quella è la nostra condizione, la nostra metafora, la nostra proiezione.
Tutti, prima o poi, vengono battuti, nel lavoro e nella vita. Non esistono esseri umani invincibili, da che storia è storia. E quando la sconfitta arriva, allora quell’essere umano, quell’essere umano lì, è solo, solissimo, l’essere più solo dell’universo – un cellulare che non squilla più, un cespuglio che rotola nel deserto, un coyote che ulula alla luna - preda del cono d’ombra che lo cattura, lo segrega, lo avviluppa nella sua ragnatela, consegnandolo a un destino di rassegnazione, oppure a uno di livore, di odio, di voglia di vendetta, di ansia di rivalsa.
In fondo, al di là di tutte le analisi politiche e politologiche che ci stanno inevitabilmente inondando da un paio di giorni, al Quirinale è andato in scena un nuovo episodio dell’eterna danza del potere e, in questo caso, molto più delle parole, delle dichiarazioni d’intenti, delle formule condivise e delle frasi fatte, contano le espressioni, gli sguardi, le facce. Le facce. Le facce, soprattutto. Le facce di Berlusconi e di Salvini, mentre Giorgia Meloni riferiva ai giornalisti che la pletorica delegazione di centrodestra aveva indicato all’unanimità al capo dello Stato il suo nome come candidato presidente del consiglio, dicevano tutto. Basta riguardare il video pubblicato da tutti i siti nazionali e internazionali per veder squadernato sotto gli occhi un trattato completo ed esaustivo di fisiognomica, di lombrosismo, di psicologia, di antropologia.
Quelle sono facce da perdenti. Da sconfitti. Da umiliati e offesi. Quelli sono i veri vinti delle ultime elezioni, non certo le opposizioni, che non esistono e che ora o sono in sonno in attesa di astuti riposizionamenti (Azione e Italia viva) o involute nell’ennesima verbosa, noiosa, frignosa, ovviamente antifascista e autoreferenziale seduta di autocoscienza nannimorettiana (Pd) o gongolanti in un infido pauperismo, in un ipocrita pacifismo e in una fanghigliosa, ignobile cultura del voto di scambio che è la vera devastazione che ci ha lasciato in dote l’ultima tornata elettorale. Le opposizioni al momento sono fuffa. Sono quei due quelli che hanno perso. E glielo si legge in faccia. Non ce la fanno ad accettarlo e non c’è messe di presidenti e ministri, di cui ha fatto oggettivamente incetta la Lega (Berlusconi manco quello…), che possa lenire questa ferita. Perché adesso non comandano più loro, l’inerzia del governo, con i suoi salamelecchi, le sue bolle diplomatiche e le sue stanze dei bottoni, non è più roba loro, il vento della storia - ma non esageriamo, lo spiffero della misera cronaca di questi tempi – non gonfia più le loro vele. C’è un nuovo sceriffo in città.
E infatti era tutto un tic, durante la breve dichiarazione del presidente di Fratelli d’Italia, tutto un incriccare la testa, uno strabuzzare gli occhi, un alzare le sopracciglia, un dinoccolare le spalle, una postura quasi grottesca, da carabinieri di Pinocchio, o forse addirittura da il Gatto e la Volpe, che però invece di tirare la fregatura l’avevano appena presa. E da lì, potete starne certi, una dichiarazione di guerra permanente, che promette, almeno nelle loro intenzioni, un sabotaggio vietnamita lungo tutto il percorso del nuovo governo, che si prevede da subito tremendo, vista la crisi economica, energetica e internazionale nella quale siamo sprofondati.
Cosa si inventerà adesso il leader della Lega per tentare di riconquistare centralità e visibilità? Sappiamo bene che per un politico come lui - anche se, in effetti, ormai i politici sono un po’ tutti come lui – l’esposizione continua, ossessiva, naturalmente social e disintermediata è vitale, puro ossigeno alla sua visione del mondo e alle sue ambizioni.
Ma come è pensabile ritornare ai bei tempi delle ruspe e dei barconi da un ministero che regala solo rogne? Quali e quanti scostamenti di linea rispetto all’atlantismo ferreo in politica estera e al draghismo obbligatorio in economia del nuovo premier dovrà sventolare per farsi vedere, per far percepire che c’è anche lui e che incide e decide, mentre i sondaggi, in pienissima luna di miele, continuano a drenare voti dalla Lega verso Fratelli d’Italia? E al nord? Come si recupera il disastro elettorale al nord?
Ma la questione si fa ancora più profonda e drammatica per Berlusconi, che di certo è ben altra cosa rispetto a Salvini - il confronto fra le due biografie e i due curriculum è imbarazzante - e che però si trova di fronte a un ostacolo mille volte più duro e spietato. Il tempo. Lui non ha più tempo. Questo dato lo sta rendendo, di fatto, una figura tragica, che non ha niente a che vedere con la macchietta sulla quale in tanti si esercitano e ironizzano, sbagliando completamente lettura.
Il cavaliere è diventato in questi giorni una figura scespiriana, demoniaca e patetica, l’uomo che non si rassegna, che vuole più anni, che vuole più vita, che non vuole scendere dal palcoscenico (invidiabile saggezza in quelli che ce la fanno), che vuole vincere ancora - d’altronde ha sempre trionfato, nell’edilizia, nella televisione, nello sport, nella politica: perché mai dovrebbe iniziare a perdere? – che vuole comandare ancora, che vuole tutte le telecamere su di sé, che vuole ancora parlare e, soprattutto, piacere al mondo. L’uomo che non vuole morire.
I due personaggi alle sue spalle sono i veri nemici di Giorgia Meloni, quelli da cui dovrà guardarsi con grande attenzione, quelli che sperano di vederla fare la fine di Liz Truss - la premier britannica che è arrivata promettendo mari e monti e alla quale sono bastati 44 giorni al potere per coprirsi di ridicolo - per spedirla in cucina o, al limite, rifilarle il ministero delle pari opportunità. La vendetta è la ragione di vita degli sconfitti: sarà sanguinosa la battaglia a destra e, alla fine, come sempre, ne rimarrà uno solo.
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