Il silenzio di Dio
e il mistero del male

I bambini salvati sul Gran Sasso. Quelli morti carbonizzati sul bus della gita scolastica. Le persone sopravvissute ai terremoti dell’Appennino. Quelle schiacciate dalle mura di casa. Gli automobilisti scampati per essere passati un secondo prima del crollo del ponte. Quello travolto proprio in quel momento. Le famiglie felici perché fuggite dalla guerra, dall’odio, dalla fame. Quelle finite in fondo al Mediterraneo. Gli sfiorati dai proiettili dei terroristi. Quelli presi in pieno petto. I malati che guariscono. Quelli che anche la chemio è inutile.

Mille esempi, un milione, un miliardo sui quali si dipana la faticosa saga degli esseri umani lungo una interminata catena di sofferenze, di ingiustizie, di dolore e, dentro lo stesso istante, di germoglìo di vita, di rinascita, di speranza. E sui quali - tutti - incombe un unico denominatore comune, un’unica certezza. Un silenzio. Un silenzio unico. Assoluto. Assordante. Incomprensibile. Intollerabile. Un silenzio di neve. Un silenzio eterno. Il silenzio di Dio. È su questa realtà sanguinante e salda come la roccia, realtà che attraversa tutta la storia del pensiero cristiano, e naturalmente anche di quello laico, che trae linfa la nuova opera di Martin Scorsese - “Silence”, appunto - in quello che con tutta probabilità rappresenta il testamento spirituale del più grande regista vivente.

Il film, lungo, complesso, ambiguo e irrisolto - tratto dal romanzo di Shusaku Endo - racconta le vicende delle persecuzioni dei cristiani nel Giappone del Seicento, viste attraverso la missione di due padri gesuiti alla ricerca di un loro confratello sul quale grava il sospetto dell’abiura. L’affresco storico, sorprendente e poco conosciuto in Italia, la recitazione intensa nonostante qualche faccia un po’ troppo americana, le dotte citazioni della cinematografia nipponica, la fotografia magnifica nel simbolismo gravido di significati, nei tratti pittorici, nella ferocia lapidaria con cui vengono ritratte le torture, le persecuzioni dentro scene di pura allegoria dantesca. Una miriade di elementi filmici e filosofici incastonati dentro una grande riflessione sul senso del male nell’esistenza degli uomini, la formidabile figura del traditore, del giuda, del vigliacco, incarnata nel servo Kichijiro, personaggio ignobile e commovente, profilo del dannato scespiriano, kurosawiano nel quale viene rappresentata l’umanità in quanto tale, noi tutti in quanto inermi, fragili, schifosi, disperati, peccatori pusillanimi, sempre pronti a tradire e sempre assillanti nel chiedere perdono. Il dibattito teologico tra il gesuita padre Rodrigues e l’inquisitore Inoue Masashige - chiara e ambiziosissima trasposizione del Grande Inquisitore dei Karamazov di Dostoevskij - che lo cattura, lo processa e lo spinge ad abiurare. Il dilemma tragico se valga di più la misericordia, il comandamento supremo che Gesù trasmette ai suoi discepoli, oppure la fedeltà alla parola che invita a evangelizzare il mondo perché è la Verità. La caduta (o il rifugio?) nell’apostasia, perché quel Cristo che gli parla e lo invita a cedere («Non avere paura, calpestami!») è davvero Cristo o solo la malìa diabolica del codardo?

C’è tanta materia in questo film concettoso e straordinario, che prosegue il percorso che va dall’”Ultima tentazione di Cristo” a “Kundun”, materia per storici, per teologi, che non è piaciuto ad alcuni (il rischio del relativismo? Una fede solo interiore? La critica ai tentativi di esportare fede e democrazia? La superiorità della filosofia buddista rispetto all’incarnazione cristiana?) moltissimo ad altri, ma che non può non scuotere tutti: credenti, agnostici, atei. Perché su tutto questo grava immanente il tema del silenzio di Dio, che devasta il missionario sottoposto alla durezza della vita nelle catacombe, alla ferocia dei carcerieri, alla visione della tortura dei cristiani giapponesi, al vacillare delle sue certezze. Se a dominare sono i demoni, il dolore e la morte, dov’è Dio? Dov’è? Perché lo ha lasciato solo? Perché lo ha abbandonato? Perché permette il male? Soprattutto, perché tace? Perché? È un Dio silente. Un Dio nascosto. O forse non c’è. Non esiste. È tutta un’immaginazione, una fola, un aliossi, un delirio, una presa in giro. Cieli vuoti, lune indifferenti, mera materia che perennemente si trasforma e tutto distrugge e tutto involve e tutto macina, tritura, spurga ed evacua. E quindi lì dentro, in quell’universo senza senso, avvolto in un silenzio gelido, solo pulsioni, istinti, urla primordiali. Niente intelligenza, finalità o giustizia. Niente salvezza.

Se uno guarda alla storia del mondo, ai recenti fatti di cronaca, che poi sono sempre gli stessi, e anche, se vogliamo, alla sua piccola, minuscola storia personale, non è forse così? Dio come può permettere che un bambino muoia senza motivo nel sonno, mentre altri mille vivono e prosperano? Come ha potuto permettere lo sterminio pianificato e industriale di un intero popolo inerme (anzi, gli stermini pianificati e industriali di interi popoli inermi?) senza fare nulla? Senza dire nulla? Perché? Perché permette tutto e perché tace? Che pedagogia. Che parabola potente. Che grande sfida per chiunque sia in cammino e che Scorsese ripropone in tutta la sua durezza. E alla quale non si può dare una risposta razionale - sono duemila anni che si dibatte angosciosamente su questo tema - ma, per chi crede, solo abbandonarsi alla provvidenza divina o affidarsi alla lezione insita nella memorabile pagina del “Cristo torna sulla terra” di Flaiano.

Gesù è tornato e tutti lo assalgono: fotografi, curiosi, cacciatori di autografi, giornalisti, prostitute, sindacalisti, maniaci, attori, biologi, psicologi, sociologi, nevrotici e tutti vogliono, chiedono, pretendono. Solo un uomo, uno solo gli porta la figlia malata e gli dice l’unica cosa che, forse, può permettere a noi Kichijiro di capire finalmente il suo silenzio: «Io non voglio che tu la guarisca. Io voglio che tu la ami».

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@Diegominonzio

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