Il tempo senza lavoro
non è mai vuoto

Se ne sta andando questo tribolato 2013. E’ la fine mesta di un altro anno, ancora una volta da dimenticare, come molti di quelli che lo hanno preceduto. Faremo festa lo stesso. Ma come sempre, quando i motivi per far festa scarseggiano, anche questa volta, più la festa sarà sguaiata più ci sembrerà fuori posto.

Forse, anche stavolta, la festa dell’ultimo giorno dell’anno sarà per dimenticare.

Il fatto si è che il confronto con il tempo che passa è da sempre un esercizio penoso. Penoso in ogni caso. Nei tempi del benessere il tempo non basta mai perché si hanno molte, troppe cose da fare. E prevale allora la frenesia, il rincorrere le cose che sono sempre più veloci di noi.

L’anno che se ne va è stato, invece, un anno di gravi difficoltà economiche. Accanto a tante persone che, ritenendosi fortunate, hanno continuato a lavorare, molte altre persone sono rimaste senza lavoro o con la paura di perderlo. Allora la prospettiva non è quella della molte cose da fare, ma le poche da fare, troppo poche o, nei casi di chi perde il lavoro, il nulla. Mentre, nel primo caso, il tempo non basta mai, qui avanza sempre. È difficile immaginare la giornata di un disoccupato che non riesce mai a trovare qualcosa da fare. Il suo tempo ha tratti simili al tempo del malato grave o del vecchio non autosufficiente: tempo vuoto, tempo di inattività forzata. Con un’aggravante, per il disoccupato: che potrebbe fare molto perché ha l’età e la salute dalla sua; potrebbe fare molto e non può fare nulla. Per cui la sproporzione fra quello che è e quello che vorrebbe essere è amplissima.

C’è però un’osservazione da fare. In teoria, non avendo nulla da fare, si potrebbe tornare a se stessi, usare il tempo senza lavoro per lavorare su di sé. Ma è solo una teoria. Per un motivo molto contingente: è difficile che uno che non ha la pagnotta si possa concedere il lusso del pensiero e della riflessione. In fondo, pensare, resta un lusso e se lo può permettere chi non ha altri bisogni più impellenti. L’operaio che non può mantenere la famiglia non può mettersi a fare il filosofo. Ma poi c’è un motivo più di fondo. Supponiamo pure che il metalmeccanico disoccupato possa mettersi a fare il filosofo. Ma ce la farà? Difficile. In effetti, la frenesia dei tempi di grande sviluppo ha creato un’assuefazione pesante, per cui le molte cose da fare, la frenesia del lavoro espropriano non solo il molto tempo ma anche la capacità di fare altro, durante quel tempo. Diciamolo in altre parole: assorbiti in maniera esasperante in quello che facciamo non riusciamo più a prenderne le distanze, a capire perché facciamo. Non è allora fuori posto immaginare che cosa succede quando improvvisamente le molte cose da fare diventano poche o nessuna. Avendo perso le cose da fare perdiamo noi stessi. Il tempo che era sempre tempo di altri e di altro non riesce più a tornare ad essere il nostro tempo.

Torna interessante pensare come il tempo senza lavoro, in tanta tradizione biblica e cristiana, non è vuoto, ma tempo pienissimo. Per la bibbia il sabat è tempo di riposo, tempo di Dio. E così la domenica, “giorno del Signore”, nella tradizione cristiana. E proprio perché si vive quel tempo pieno di Dio e della sua Parola, ci si attrezza per vivere bene anche il tempo pieno d’altro: di lavoro, di divertimento, di cose, di persone. Tutto questo pieno caotico prende senso e ordine dal tempo di Dio.

La nostra lunga interminabile crisi è un interminabile tempo feriale, che non ha più nulla da dire quando le molte cose che lo occupano non ci sono più. Il passaggio al nuovo anno è anche il sommesso sussurro di una speranza: che il tempo vuoto, prima di riempirsi ancora delle molte cose da fare, cominci a popolarsi di domande, di aspirazioni, di tensioni che lo rendano interessante senza essere ancora pieno di tutto. Insomma bisognerebbe che nascesse un tempo festivo, per vivere bene il tempo feriale, anche quando - lo speriamo tutti - il lavoro tornerà e molte cose cominceranno a ripopolare le nostre giornate.

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