La lettera di Renzi
e le novità importanti

Nella lettera inviata, significativamente all’alba del nuovo anno, dal nuovo segretario del Pd, Matteo Renzi, ai partiti vi sono alcuni elementi di potenziale novità che meritano di essere sottolineati. Anche se il clima generale non inclina a nutrire soverchie illusioni sul prosieguo dell’iniziativa.

Il primo dato di rilievo è l’apertura di un rapporto dialettico più libero e franco del Pd con il governo, ciò che potrebbe svincolare il partito dal ruolo che si è ritagliato (o che gli è stato ritagliato dall’influenza pesante del Presidente Napolitano) di partito della stabilità governativa ad ogni costo. Il Pd, o meglio il suo segretario (non sono ancora chiari i termini della dialettica interna), propone ai partiti alcune limitate (quantitativamente) linee prioritarie di azione politica per il prosieguo della legislatura. Si tratta di pochi ma rilevanti obiettivi, attinenti, per lo più, al ridisegno di alcune regole del gioco funzionali alla riattivazione di una auspicata fisiologica dialettica bipolare e dunque, seppur implicitamente, alle ri-elezioni. Sembra quindi di poter cogliere un giudizio, che rimane però implicito, di perplessità rispetto alla capacità politica che il Governo Letta può esprimere. Esso appare privo di forza propulsiva, come peraltro hanno palesato le immediate incertezze sulla riforma della Bossi-Fini e sulle unioni civili, ma anche l’immobilismo sulla strategia economica. Sul rapporto con il Governo delle “larghe intese”, la posizione di Renzi sembra quindi contrassegnata da un atteggiamento di insoddisfazione.

Un secondo elemento positivo è che destinatari della lettera sono tutti i partiti, e non solo le forze di sostegno della maggioranza. Concentrando l’indicazione delle priorità sulle riforme elettorali e costituzionali, Renzi si rivolge all’insieme delle forze politiche, riconoscendo pertanto che gli accordi che riguardano le “regole del gioco” democratico devono essere perseguiti in modo ampio e che gli interlocutori non devono corrispondere ai soli alleati di governo. E anche questa, a ben vedere, è una presa di distanza dalle linee programmatiche del governo Letta che aveva discutibilmente legato la sua permanenza al compimento di un processo di ampia revisione costituzionale. La proposta di Renzi prova a “stanare” anche il M5S di Grillo, al quale concede alcuni significativi riconoscimenti, ma a cui chiede di prendere parte a processi di necessaria mediazione, uscendo dalla tentazione di un comodo atteggiamento di disfattismo.

Qualunque sia il motivo (convinzione o rassegnazione?) Renzi sembra finalmente rinunciare all’idea di una complessiva, quanto improbabile, revisione costituzionale per concentrare l’intervento sulla riforma del bicameralismo (“una riforma del bicameralismo con la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie Locali”) e su una manutenzione del titolo V (”che semplifichi il quadro costituzionale e istituzionale, che restituisca allo Stato alcune competenze oggi in mano alle Regioni”). Anche se non condividiamo la tesi - da qualcuno affacciata - che il Parlamento in carica sia delegittimato a seguito della “bocciatura” parziale della legge elettorale da parte della Corte costituzionale, non v’è dubbio che, sul piano politico, una revisione costituzionale operata da queste Camere appare gravemente inopportuna, per più di un motivo. A maggior ragione inaccettabile è l’idea della grande riforma, peraltro non necessaria.

Anche sulla legge elettorale, che pure non è formalmente materia costituzionale, si segue la strada, condivisibile, di accordi più larghi dell’area di Governo. Il Pd non si irrigidisce più su di un’unica soluzione, ma avanza alcuni principi di priorità (“una legge elettorale che sia maggioritaria, che garantisca la stabilità e l’alternanza, che eviti il rischio di nuove larghe intese”), che però si traducono in tre possibili (e aperte) forme: il modello spagnolo con premio di maggioranza al 15%; una riedizione del “Mattarellum” con introduzione di un premio di maggioranza del 15%; una riproposizione della legge elettorale adottata per i Comuni più grandi e cioè un doppio turno di coalizione. Si punta dunque a porre le condizioni per un bipolarismo con l’assegnazione di premi di maggioranza ridotti (15%) o subordinati al raggiungimento, almeno al secondo turno, di una consistente soglia di consensi, in modo da evitare censure della Corte costituzionale. Ma il pericolo maggiore si annida nel fatto che si ritiene che la strada per il bipolarismo sia fatta di meri accorgimenti istituzionali.

Mentre sono le condizioni politiche che non la favoriscono: a destra si allunga ancora l’ombra di Berlusconi, rispetto a cui Alfano non ha la forza di consumare una vera rottura; a sinistra, proprio il Pd di Renzi deve ancora dotarsi, oltre che di una leadership brillante, di un programma riconoscibile e di orizzonte europeistico di promozione dell’eguaglianza sostanziale e della redistribuzione.

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