Basta poco per diventare una macchietta. Pier Paolo Pasolini non è stato un grande scrittore e neppure un grande poeta e, tutto sommato, neppure un grande regista. La maggior parte della sua produzione appare oggi irrimediabilmente datata. Un po’ come quella di Moravia, dopotutto. Ma il tempo, si sa, è implacabile e non ha pietà di nessuno.
La sua vera statura risiede invece nella specifica dimensione di intellettuale, capace di indagare con lucidità assoluta tra le pieghe di una società che stava cambiando e che tradiva le sue radici storiche e culturali per finire preda del più bieco consumismo, che tutto pialla, tutto anestetizza, tutto riduce a poltiglia. Il vero regime - ecco la strepitosa modernità, addirittura profetica, del suo pensiero - non era il fascismo, sul feticcio del quale intere schiere di intellettuali di sinistra avrebbero costruito formidabili carriere perbeniste nel mezzo secolo successivo alla sua caduta, quanto invece, come detto, il consumismo e il conformismo, che avrebbero reso la gente definitivamente schiava del pensiero unico collettivo, senza neppure bisogno di guerre, dittature e lager. Altro che Mussolini.
Certo, ai tempi di Pasolini non c’erano ancora i social - quanto sarebbe bello leggere un suo saggio su questo fenomeno - ma c’era già la televisione. E lui della televisione aveva capito tutto. In un celebre faccia a faccia con Enzo Biagi aveva ribadito che quello è “un medium di massa e in quanto medium di massa non può che mercificarci e alienarci” e che una persona che “ci ascolta dentro un video ha un rapporto da inferiore a superiore, una cosa spaventosamente antidemocratica”. Insomma, la tivù è autoritaria “in sé”, a prescindere dai contenuti e dal valore dei soggetti che ospita, perché impone il proprio verbo senza alcuna possibilità di dibattito, discussione o replica. E’ la sua natura, totalizzante e totalitaria.
Un’analisi molto militante, molto interessante, molto visionaria, soprattutto, visto come si è evoluta la televisione nei decenni successivi, con caratteristiche sempre meno plumbee, tipiche degli anni Settanta, e sempre più grottesche, la vera cifra del piccolo schermo dagli anni Ottanta in poi. E infatti eccoci qui. L’ennesima conferma della acutezza assoluta di Pasolini si può cogliere nelle virulente polemiche attorno ad Alessandro Orsini, professore associato di Sociologia del terrorismo alla Luiss, che dopo le sue analisi televisive sulla guerra in Ucraina è stato bollato come intellettuale putiniano antioccidentale eccetera eccetera. Ora, il punto non è tanto se il professore in questione sia una mente libera che ha il coraggio di dire quello che pensa e di spiegare quello che sa senza farsi vincolare dai pregiudizi del mainstream oppure un clamoroso cialtrone che, come tanti altri prima di lui, ha trovato il modo per diventare celebre e al quale calza a pennello la mitologica vignetta di fine anni Ottanta nella quale quel genio di Altan ha immortalato la nascita del fenomeno Sgarbi: “Sono famoso, la gente mi riconosce e grida: ‘A coso, facce ‘na polemica!’ ”.
Il fatto è che noi non lo sappiamo, né probabilmente mai sapremo, visto che ci mancano le competenze specifiche. Ma questo poco importa. Il fatto devastante è che una volta inserito nel tritacarne del rutilante mondo dello showbiz, nel Circo Medrano dei talk show di prima serata, nel Circo Barnum dei contenitori del pomeriggio per la casalinga di Voghera, nel Circo Togni dei social media, nel Circo Orfei delle ospitate, delle marchette, dell’opinionismo e del tuttologismo, ecco, una volta finito dentro quella roba lì, è del tutto irrilevante che quello sia un’arca di scienza o un perfetto analfabeta.
A quel punto è diventato inesorabilmente una maschera, un pupazzo, un fenomeno da baraccone che sta lì a recitare la sua parte in commedia, una sceneggiata televisiva dove tutto è finto e tutto ruota attorno a un Cencelli catodico che prevede tutti i tipi umani del catalogo lombrosiano: il pacifista invasato, il veterocomunista che con il Muro si stava meglio, il neofascista che quando c’era lui, il cattolico ultratradizionalista, il no vax, il sì vax, il virologo di destra, l’immunologo di sinistra, il geopolitico atlantista, il generale mondialista, la madonnina infilzata, il montanaro romanziere, il gay, la pornostar, il negro, il musulmano, il nano, le ballerine, il camorrista pentito, la influencer hegeliana e tutto il resto del caravanserraglio che rende i nostri programmi di informazione grotteschi tanto quanto, se non di più, “Uomini e donne” o “L’isola dei famosi”. Perché, c’è qualche differenza tra Tina Cipollari e il professor Orsini o tra Ilona Staller e Mauro Corona?
Di certo ci sono delle persone serie in quelle trasmissioni, veri professionisti con cultura e competenza che sarebbe bello e utile condividere con noi popolo bue ansioso di essere informato in modo completo e corretto, ma vengono sistematicamente travolte da insopportabili conduttori tutti compresi nel ruolo e, soprattutto, dalla natura stessa del medium, proprio come sosteneva Pasolini. Tanto è vero che se Borges o Picasso o Heidegger redivivi diventassero ospiti fissi di “Non è l’Arena”, di “Cartabianca” o “Di martedì” finirebbero con il fare la figura degli imbecilli. O magari si metterebbero pure loro a prendersi a gatti morti in faccia con Scanzi, Giletti e altri intellettuali del genere. Scommettiamo?
Se guardate il volto e le espressioni del professor Orsini - ripetiamolo: forse è davvero preparato e competente - capite subito che lì dentro è successo qualcosa. Qualcosa di osceno e irreversibile. Un Alien lo sta visitando. Occhi sbarrati, smorfie di disgusto, ire funeste, mattane bizzose, e gesticola e suda e sbuffa e sbraita e batte i piedi, ormai posseduto dal demone della vanità che nel giro di poche settimane lo ha trasformato, come trasformerebbe chiunque di noi.
Mettete un uomo davanti a una telecamera e in due minuti diventerà un guitto: questa è l’unica verità.
@DiegoMinonzio
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