Giornalismo spesso fa rima con cretinismo. E questi inglesi, insomma, ma che vergogna, ma che figuraccia, ma che antisportività, ma è una cosa inaccettabile, ma è una cosa intollerabile, ma è una cosa inqualificabile e fischiare il nostro inno nazionale, non si fa, e togliersi la medaglia dal collo appena ricevuta da De Coubertin Ceferin, non si fa, e non mostrare al mondo intero le più elementari regole del fair play, non si fa. E poi ci danno lezioni e ci fanno la morale e pontificano che loro sono quelli che hanno inventato il calcio, ma si è mai vista una cosa del genere su un campo di gioco, ma dove siamo finiti, signora mia?
E sui nostri giornaloni e nei nostri programmoni sportivi e nei nostri contenitori pomeridiani per la casalinga di Voghera e sui nostri social di tendenza tutta una lamentazione e una indignazione e una riprovazione sulla vittoria mutilata della Nazione Proletaria alla quale non si perdona di essere stata la migliore di tutte (vero!) e che da sempre dimostra a tutti cosa significhi rispettare il verdetto del campo e le regole del gioco e la dignità degli avversari e bla bla bla. Ogni articolo, una terrazza di piazza Venezia, ogni editoriale una prosa fiammeggiante degna di D’Annunzio nella Repubblica del Carnaro, ogni servizio del grande inviato-editorialista un affresco da far impallidire quelli di Malaparte in Etiopia o di Barzini senior nel raid Pechino-Parigi. Tutto vero. E anche di più, visto che uno dei tagli più pregiati del carrello dei bolliti del giornalismo trombonesco nazionale è riuscito addirittura a scrivere che per un popolo che non ha avuto Balzac, Flaubert, Tolstoj e Dostoevskij è il pallone il vero racconto popolare condiviso. Dostoevskij. Dostoevskij romanzesco. Dostoevskij popolare. Le parate di Donnarumma trasposizione di Ivan Karamazov al processo per l’assassinio del padre. E lo ha scritto. Lo ha scritto per davvero. Dostoevskij. E poi dicono che la gente non legge più i giornali…
E così, zigzagando qua e là tra i fiumi, le cateratte e le cascate di retorica e di melassa e di zucchero filato e mito e leggenda ed epica del nostro formidabile sistema dei media e tra gli squilli di indignazione contro gli inglesi satanassi della più indegna antisportività, vengono alla memoria alcuni sapidi frammenti del passato. La finale di Europa League dell’anno scorso, ad esempio, persa inopinatamente dall’Inter con il Siviglia e, ma guarda un po’, Antonio Conte (mister simpatia numero uno) che si toglie subito la medaglia dal collo, seguito da tutti i giocatori nerazzurri. La finale di Supercoppa italiana del 2009, persa sempre dall’Inter contro la Lazio e, ma guarda un po’, il mitologico José Mourinho (mister simpatia numero due) che giocherella scocciato con la medaglia in mano e tutti i calciatori nerazzurri che se la tolgono appena dopo la premiazione. Le ultime cinque finali giocate dalla Juventus (tutte perse, naturalmente…) e, ma guarda un po’, Bonucci, Buffon, Dybala e compagnia che si tolgono immediatamente la medaglia dal collo. E potremmo proseguire con la premiazione del Liverpool dopo la pazzesca vittoria in rimonta (da 0-3 a 3-3 in sette minuti) sul Milan nella Champions del 2005 (indovinate un po’ cosa hanno fatto i giocatori rossoneri?) e con tutte le altre finali di coppa di club e delle nazionali. Tutte, nessuna esclusa. E poi, non contenti, potremmo ricordare il gigantesco, mostruoso uragano di fischi dell’Olimpico di Roma durante l’inno dell’Argentina prima della finale dei mondiali 1990 perché gli sportivissimi italiani (che non sono mica inglesi…) non perdonavano a Maradona di aver eliminato gli azzurri in semifinale. Dopo, tutti videro Dieguito insultare il pubblico in mondovisione con un rabbioso “hijos de puta!”, l’Argentina perdere per un rigore inesistente e buonanotte ai suonatori. Ma anche le provocazioni antisportive di Materazzi a Zidane nella finale dei Mondiali 2006 e la testata antisportiva di Zidane a Materazzi e Luis Enrique sfregiato da Tassotti nel 1994, i milanisti massacrati dai killer dell’Estudiantes nella finale di Coppa Intercontinentale del 1969, il capolavoro di Azzeccagarbugli Prisco con la lattina di Inter-Borussia del 1971 e gli altri mille episodi che vi verranno in mente.
Insomma, è sempre andata così. E andrà sempre così. Che cosa c’entra l’antisportività degli inglesi? Ma che c’entra? Ma perché siamo così tromboni? Ma perché se non affibbiamo una metafora letteraria (letteratura da stazione, letteratura da sciampiste, letteratura da prova Invalsi) a una partita ci sentiamo tutti quanti dei falliti? La vittoria degli Europei come emblema della rinascita dell’Italia? Gli Europei simbolo del riscatto del paese? La Coppa che mancava dal 1968 (domanda ai cultori del calcio: vogliamo parlare della sportività della monetina?) come schiaffo al virus e al lockdown? I rigori come vaccino psicologico alla Nazione? Chiellini che fa ripartire l’export e dà una scossa imperiosa al Pil? Jorginho che attira torme e frotte di turisti nel Belpaese, e chissenefrega se poi non c’è il tracciamento e il Green pass è liberale o liberticida? E lo abbiamo scritto e lo abbiamo detto e l’abbiamo declamato ai quattro venti, con tutto il petricore della nostra prosa carducciana. E la cosa curiosa è che qualcuno pure ci crede. E la cosa ancor più curiosa è che non sia ancora arrivata l’ambulanza per portarci a tutta birra alla neurodeliri.
Una partita è una partita. E, in effetti, lì dentro c’è tutto: genio, tecnica, corsa, ferocia, bei gesti, pestoni assassini, sangue&merda, caso, destino. Basta leggere una cronaca di Brera, che trasformava il derby in un capitolo dell’Iliade, o di Arpino per capirlo. Ma quelli avevano studiato. E sapevano scrivere in italiano. E comunque quello rimane pur sempre solo e soltanto calcio, che ben poco ha a che vedere con la sportività, ancor meno con la retorica della nostra categoria di romanzieri falliti e che, soprattutto, come noto, non è uno sport per signorine.
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