Bocciare, solo a Como costa 34 milioni di euro. È una stima fatta sulla valutazione dell’Ocse che ha stabilito che il costo sociale per ogni alunno bocciato si aggira attorno agli 8mila euro.
Una cifra che sembra enorme e che si porta anche il costo psicologico per chi viene bocciato. Secondo molti pedagogisti e psicologi, la bocciatura, soprattutto nell’adolescente, equivale ad un’esclusione dal mondo degli altri ragazzi, che difficilmente si trasformerà in opportunità. Una volta che ti bocciano, dicono gli esperti, sei fuori, hai un’etichetta adesiva addosso difficile da staccare. Fin qui il dato
psico-pedagogico, ma l’Ocse nella sua definizione in numeri si preoccupa di più del portafoglio: i soldi mancano e quindi bisogna fare l’impossibile per limare i bilanci. Quella psico-pedagogica e quella economica sono due analisi molto diverse che si possono contaminare in senso negativo.
È come dire all’insegnante: attento perché se bocci fai un doppio danno, al ragazzo e al bilancio e sembra che oggi il secondo pesi più del primo. Si perpetua così l’eterna “lotta” tra chi nella scuola ha la testa economica e chi educativa e, anche se si continua a dire che le due teste non sono in competizione, nella realtà, lo sono eccome. Di recente, un docente universitario commentava «dobbiamo fare di tutto per rendere semplice l’esame, dividere la mole di pagine da studiare in brevi sezioni perché se bocciamo troppo poi la gente non si iscrive più e perdiamo anche i fondi che ci servono per andare avanti». Qui la testa educativa si è proprio staccata dal collo, e non per colpa dei docenti. Risparmiare non deve essere il primo parametro di valutazione per decidere se fermare o no un ragazzo o un bambino.
Certo, sarebbe più facile guardare solo al bilancio, si trancia ogni dialogo con il ragazzo e la famiglia, si fa un bell’editto e via, così si decide, così si fa e chi non è d’accordo se ne faccia una ragione. Invece a scuola non va così, per fortuna. Anche a Como, nella maggior parte dei casi, i docenti si incaponiscono a super valutare la decisione di bocciare, prima di farlo le provano tutte, anche perché sanno che i bocciati rischiano di disperdersi, e spesso non nel mondo del lavoro. Il ministro Maria Chiara Carrozza di ce che la scuola «ha in sé un processo selettivo» e che «la bocciatura deve essere uno strumento estremo, discusso e vissuto con il ragazzo/ragazza e i genitori, altrimenti porta alla dispersione. Dobbiamo orientare i ragazzi verso il percorso più adatto».
Cioè, bocciate dopo averle provate tutte. E ha ragione, per una serie di motivi che riguardano il senso stesso della scuola che non è più quello del maestro Manzi di 40 anni fa, nemmeno di 10. Allora erano meno le persone che studiavano, le competenze dei docenti e le richieste della società. Eppure anche Manzi scriveva nei suoi giudizi “Fa quel che può, quel che non può, non fa”. Fa ridere, ma è vero. Come è vero che se non si boccia bisogna studiare sistemi didattici che rendano responsabili verso lo studio coloro che non lo sono, e se non lo sono un motivo ci sarà. Esistono corsi, anche nel Comasco, in cui non si boccia, e spiegate voi a uno di 15 anni, messo lì per forza, magari appena arrivato in Italia o con un disagio personale, che deve studiare per il suo futuro, pur sapendo che sarà promosso comunque. Quindi i docenti cosa devono fare? Pazientano tanto e cercano di creare con gli studenti un legame relazionale. Quello già sarebbe un obiettivo raggiunto verso «il percorso più adatto» per ciascuno. Ma per favore, non si tengano ragazzi di 14 o 15 anni ancora alle medie, quello sì che è un costo, sociale oltre che economico, quello è un uomo, i suoi compagni dei ragazzini. Poi si incrocino le dita, e buona vita a tutti.
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