Spacciatore a 17 anni. Arrestato a scuola, a Como, in mezzo ai compagni di classe. Ce n’è abbastanza per alzare gli occhi al cielo, scuotere il capo ed esclamare, con la più grave delle intonazioni: «Dove andremo a finire?». Oppure «Che tempi!», un altro classico dell’indignazione benpensante.
Ma quando queste espressioni andavano per la maggiore i tempi erano effettivamente “altri” e il quesito sulla nostra destinazione finale incerto abbastanza da giustificare se stesso. Ora “i tempi” sono questi e dove siamo andati a finire lo sappiamo bene. E allora? Che cosa si può dire del ruolo della scuola che non si sia già detto? Che cosa si può suggerire agli educatori che gli educatori stessi non abbiano già inventato, sperimentato, scartato, riprovato ed eventualmente scartato di nuovo? Nulla, certo, ma la notizia che “apre” oggi la sezione cittadina del giornale non può essere dismessa come un semplice, per quanto straordinario, fatto di cronaca. È evidente che i poliziotti nei corridoi di una scuola non sono spettacolo di tutti i giorni, è evidente che l’arresto di un minorenne con una più che discreta quantità di droga non è un fatto di ordinaria amministrazione. È evidente anche che, per risolvere la questione, non basterà, per quanto sarà necessario, che si snodi tutta la procedura giudiziaria: l’arresto, il processo, la sentenza ed eventualmente la pena.
La questione centrale è invece quella dell’impermeabilità della scuola a mercati che, evidentemente, sottendono a certe abitudini le quali, a loro volta, sono il frutto di una “cultura” (notare le virgolette) dalla quale vorremmo tenere i ragazzi al riparo. Invece di essere il luogo deputato a costruire una cultura alternativa alla droga, sulla base di un insegnamento che apra gli occhi al rispetto di se stessi e del prossimo, la scuola diventa, per doloroso paradosso, il “sistema” nel quale immettere la cattiva abitudine stessa, la “cultura” con le virgolette, approfittando della presenza di tanti ragazzi, dell’impossibilità del personale di vigilare su tutto e tutti e della lontananza dei genitori impegnati, nelle ore di lezione, a “combattere” la propria vita: il lavoro, i problemi, le avversità ordinarie e, in questo periodo storico, perfino quelle straordinarie. Si può immaginare sconfitta peggiore?
L’esperienza scolastica ha lasciato in tutti noi adulti un misto agrodolce di ricordi: nostalgie si innestano in incubi, dolcezze sentimentali si saldano a sgradevoli asperità. Credo si potrà convenire, giudicando a distanza di tempo, che il momento in cui la scuola ha abdicato al suo ruolo, è stato sempre quando si è sganciata dalle famiglie, è stata percepita come un “deposito” di ragazzi, un parcheggio per giovanili esuberanze, una sala d’aspetto per la vita.
Così concepita, la scuola può diventare qualsiasi cosa. Per i ragazzi una scatola piena di noia, per i genitori il luogo davanti al quale, verso l’una, parcheggiare il Suv e per gli insegnanti una ciotola nella quale depositare se stessi in attesa che lieviti la pensione di anzianità. Il rischio che questo accada sempre più spesso è altissimo: lo alimentano incertezze ministeriali, scarsità di fondi e il vento di sfiducia che spira nella società. Salvare la scuola dovrà dunque essere lo sforzo di tutti, a incominciare da chi ha figli che la frequentano. L’alternativa è lasciar fare alla polizia: che può salvarci da tutto, tranne da noi stessi.
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