Il tragico episodio verificatosi nel Tribunale di Milano offre lo spunto per una serie di riflessioni che risulta difficile ricondurre ad unità. In effetti, sarebbe semplicistico derubricarlo a fatto puramente privato: in questa vicenda, che nasce certamente dalla follia di un uomo che ha visto nella giustizia le cause del suo tracollo finanziario, ha inciso anche la grave frustrazione in cui versa una parte non irrilevante del corpo sociale che la politica tende colpevolmente a sottovalutare.
Partiamo da un dato inoppugnabile: come un fiume carsico, da tempo esiste nella società italiana un grumo di rabbia e di esasperazione al quale la crisi economica ha fatto da terribile detonatore.
Serve a poco chiedersi come abbia fatto l’assassino ad entrare armato nel Palazzo di Giustizia: un simile interrogativo, pur comprensibile sotto la spinta emotiva della tragedia, risulta ozioso e fuorviante perchè gioverà sicuramente all’efficienza dei controlli nei Tribunali italiani ma non servirà a risolvere i veri problemi esistenti nel nostro paese che hanno per oggetto l’ordine pubblico e la sicurezza. In Italia, la sicurezza urbana sta diventando una grave emergenza che impone una riflessione sistemica che la classe politica appare incapace di promuovere anche perché, storicamente, una parte di essa ha sempre ritenuto la sicurezza un valore “di destra”. Nelle città italiane stiamo assistendo, da anni, ad una vera e propria desertificazione notturna che ha costretto il cittadino a limitare l’esercizio delle sue libertà fondamentali. Tutto ciò risulta paradossale se pensiamo al numero di appartenenti alle forze dell’ordine: l’arma dei Carabinieri conta 105mila dipendenti; la Polizia di Stato ne conta poco più di 100mila; la Polizia penitenziaria, 38.884; la Guardia di Finanza, circa 60mila; i forestali, 7.615.
Occorre ammettere che, da tempo immemorabile, esiste un problema di coordinamento che ha reso, ormai, indifferibile la necessità di una fusione tra alcuni corpi dello Stato volta ad eliminare sprechi che finiscono, altresì, per penalizzare il trattamento retributivo di tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine. Secondo l’Aran, la retribuzione annua media lorda di ciascun dipendente ammonta a poco più di 34mila euro: come dire, circa 1.600 euro netti al mese. Si tratta di stipendi che, rapportati alla pericolosità e alla delicatezza delle funzioni svolte, risultano obiettivamente modesti.
Tuttavia, questi dati non devono indurre ad un approccio di carattere esclusivamente repressivo al tema della sicurezza che, non bisogna dimenticare, affonda le radici nel disagio e nelle gravi disuguaglianze esistenti nella nostra società all’interno della quale si sono consolidati conflitti distributivi non più tollerabili. Nel nostro paese si respira, da tempo, una rabbia sociale che inizia a manifestarsi nei modi più disparati. Il consenso che, attraverso i social network, taluni hanno stolidamente tributato al folle gesto omicida, rappresenta un sintomo da non sottovalutare. La violenza è sempre figlia della povertà. Inutile negarlo, ci stiamo impoverendo: se vogliamo capire, è da qui che bisogna partire.
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