In un giorno solo – il 27 maggio – sono venuti a galla due importanti anniversari: i cento anni dalla nascita di don Lorenzo Milani e i trenta dalla strage mafiosa dei Georgofili a Firenze. Ricorrenze, come detto, significative, tanto che per “sottolinearle”, come si usa scrivere in questi casi, si sono mobilitati i massimi rappresentanti dello Stato, ovvero il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e la premier Giorgia Meloni.
L’espressione “venuti a galla”, qui, può sembrare impropria e perfino stonata, vista la solennità degli anniversari, ma costituisce o vorrebbe costituire il nocciolo della questione. La storia e l’attualità, la pratica nel registrare gli eventi, la disponibilità dei documenti registrati e la loro pubblicazione diffusa – ovvero in Rete – hanno pavimentato le nostre strade di anniversari piccoli e grandi: a ogni passo, potremmo dire, c’è un anniversario. La figura di don Milani e l’importanza storica e sociale della guerra alla mafia non sono in discussione: quel che forse merita un pensiero è l’attuale pratica del ricordo.
Non è passato molto tempo da quando la storia narrata di un Paese si muoveva su cardini cronologici ben precisi: pochi e sempre quelli. Anniversari di battaglie cruciali e di Vittorie, rigorosamente con la V maiuscola. Dalla Resistenza all’Armistizio firmato Diaz – 25 aprile e 4 novembre – era il passo incontrastato degli uomini armati a darci una ragione di celebrazione. Presto abbiamo aggiunto il baluardo fondamentale della vicenda repubblicana – il 2 giugno – e, nel 1961, una serie di iniziative culturali assortite celebrò i primi cento anni dell’Unità d’Italia.
Il resto? Poca cosa. Ci era concesso, ogni anno, un anniversario privato che per pudore chiamavamo compleanno. Difficile che, per i più, l’occasione prevedesse la mobilitazione della fanfara dei Bersaglieri.
Oggi le cose vanno diversamente: di 24 ore in 24 ore transitiamo in una “Giornata” diversa, non solo per via dell’ordinato scorrere del calendario, ma per il tema sociale sul quale veniamo invitati a soffermarci, a prestare solidarietà e ad assicurare la nostra partecipazione. A questo si aggiunga che il meccanismo dell’anniversario ha perso “pomp and circumstance” come si dice in inglese, ovvero un corredo formale destinato a impressionare per potenza e solennità. Piuttosto, l’anniversario è un invito a voltarsi indietro e a dare uno sguardo alla strada percorsa. Su queste basi, tutto è anniversario: i 50 anni dall’uscita di “Parsifal” dei Pooh, i 40 del film “Pappa e ciccia” di Neri Parenti e i 60 della promozione del Messina in serie A. Tante sono le occasioni – continuiamo a chiamarle così anche se sentiamo pressante la richiesta d’impiego avanzata dal termine “pretesti” -, tanti gli spunti per voltarci indietro che in pratica ci scopriamo a camminare a ritroso per la maggior parte del tempo.
Fosse questo un esercizio utile a trarre dal passato una più robusta cultura del presente o, più semplicemente, a imparare qualcosa in modo da non ripetere certi tragici errori, allora non ci sarebbe nulla da obiettare. L’impressione, invece, è che il rapporto con il passato sia rinnovato ogni giorno per prenderne le distanze immergendolo in una falsificante luce di nostalgia o per sottoporlo a un giudizio morale esercitato, sempre, con un facile e saccente senno di poi. Tanto che, infine, non è più un esercizio quanto un’abitudine e uno steccato generazionale: i giovanissimi guardano avanti aspettando la nuova versione della Playstation, i vecchi si volgono all’indietro per ricordare, lacrimuccia all’angolo dell’occhio, quando videro “Come eravamo” al cinema. Una nostalgia della nostalgia che sembra avere senso, ma solo fino a quando il film finisce.
© RIPRODUZIONE RISERVATA