La tensione sociale
e le parole che pesano

la tensione sociale. Quante volte pronunciamo e ascoltiamo questa parola. Come se fosse un fantasma minaccioso sì, ma non in grado di comparire ancora nella nostra vita quotidiana.

Quasi uno slogan negativo, cristallizzato nei timori per il futuro. La crisi alimenta la tensione sociale - si sospira - e prima o poi esploderà. Di fronte all’episodio avvenuto alla Sisme - due pallottole a salve, trovate sull’armadietto di un dirigente - viene da pensare che lo spettro si sia presentato per la prima volta nel Comasco.

Non è proprio così, per più di un motivo. E in un certo senso questa non rappresenta una consolazione.

Saranno gli inquirenti a stabilire chi - e perché - si sia reso protagonista di questa intimidazione, rivolta (così sembra di primo acchito) più all’azienda che alla persona in particolare. Doveroso non enfatizzare quanto accaduto, come è stato da più parti sottolineato. Ma non è neanche saggio prenderlo sotto gamba.

Ha detto bene l’assessore Moretti: i toni vanno abbassati. Questa è una condotta fondamentale, per evitare che simili episodi si ripresentino, ma non solo. In una fase così delicata, è opportuno soppesare le parole. E se già si è convinti di averlo fatto, vale la pena farlo ancora di più.

Questo per scongiurare altre minacce e gesti ancora più pericolosi; prima ancora, perché si sta affrontando una delicata trattativa non su fredde cifre o massimi sistemi, bensì sulle persone. E le persone meritano sempre il massimo rispetto. Al centro ci devono essere quei 223 lavoratori che rischiano di non avere più un posto da qui a poche settimane. Loro, le famiglie, un territorio che da una parte sembra scorgere segnali di ripresa e dall’altra vede una parte della sua popolazione esclusa dalla possibilità di afferrarla.

La tensione sociale non si manifesta, ma il disagio cresce dolorosamente. Si vede, se si vogliono aprire gli occhi. Se si vogliono ascoltare le storie, negli uffici pubblici, agli sportelli dei sindacati o nei centri di impiego, a volte semplicemente per strada.

Anche in questo caso vale la pena capovolgere la questione. E ci aiuta quello che è stato un esempio per Como, in un periodo ancora così delicato: il prefetto Michele Tortora. Mercoledì sera, in occasione della festa natalizia, ha voluto parlare, e già questa è una notizia: non ama farlo, infatti, durante simili eventi. Era fondamentale, questa volta, perché si voleva congedare dal nostro territorio e intendeva affidare un messaggio.

Tutti riconoscono che sia stata una figura preziosa, in questi anni di crisi, perché ha saputo mediare. Ha ascoltato le parti, si è impegnato per farle incontrare, non si è mai sottratto al pur difficile compito nelle vertenze lavorative.

Andare dal prefetto non era un’espressione formale, ma trasmetteva un senso di speranza.

Nel congedarsi appunto da Como, Michele Tortora ha rafforzato il messaggio positivo: «Servono coesione e comune senso di appartenenza, per ridare fiducia ai cittadini».

Ha messo in guardia dall’astio e ha spinto invece verso un atteggiamento costruttivo. La via tracciata, sappiamo tutti che è quella giusta, perché ha dato i suoi frutti, anche nel Comasco.

La tensione sociale non si rivela in due pallottole a salve, pur gesto odioso: non è a un fantasma che dobbiamo guardare. Abbiamo piuttosto un bene tra le mani, un bene da difendere: che è la coesione. E anche se servono sempre i fatti, l’uso misurato delle parole può essere di aiuto.

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