Sono nato in una modesta famiglia di campagna, e lì, dove le stelle, durante le veglie, brillano più lucenti, è più forte il sentimento del Creato; sentivamo l’universo echeggiare dentro di noi, sentivamo intuitivamente le grandi regole della sua armonia. Nella mia vita ho sempre desiderato porre l’etica e il rispetto della dignità umana fra gli ideali più alti, e da tale aspirazione ho cercato di generare la mia attività di imprenditore del Cashmere, attento per quanto ho potuto a produrre senza provocare danni al Creato, a mantenere costante l’armonia tra il profitto e il dono.
Appassionato di filosofia, ebbi conferma, leggendo Kierkegaard, che le persone umane sono al tempo stesso singole e universali, e questo è per me un grande valore. Ho sempre creduto nell’umanesimo come un elemento dell’universo; è quanto pensarono grandi uomini del passato, da Dante, a Galileo, che ciascuno lungo la sua strada, declinarono l’umanesimo con la spiritualità e con la scienza. Senza umanesimo, credo, non si può vivere, e io ne ho fatto il più fedele amico della mia anima: da esso ho cercato di trarre la mia idea di capitalismo umanistico, e poi, ripensando ai cieli stellati della mia infanzia, l’idea di umanesimo universale.
Proprio per l’incanto di quella vita giovanile, per quel senso dell’infinito, penso al Creato come a un custode premuroso verso il quale siamo tutti debitori per i doni dorati che riceviamo con generosa abbondanza; a lui sono profondamente grato. Ma da qualche tempo, in questo anno, la nostra vita è stata affiancata da un compagno di viaggio imprevisto e non voluto, che sotto la forma di un virus pandemico si aggira per l’intero pianeta causando dolore al corpo e allo spirito delle persone umane, con un andamento imprevedibile ed estenuante, ora lento, ora accelerato, ora mite, ora crudele, nell’alternanza di speranze intraviste e subito deluse.
Sembra di assistere ad una sorta di lotta tra la biologia e la terra, che dura a lungo, ed ecco, infine, che lo stesso Creato ci ha chiesto aiuto. Ora credo che spetti a noi, persone umane, come imperativo morale, rispondere a tale richiesta importante e urgente; e penso a una sorta di nuovo contratto sociale con il Creato.
Il contratto sociale è un’idea antica, che risale ancora a Platone, Aristotele, e poi, più vicini a noi, Thomas Hobbes e John Locke, e infine Rousseau, che gli dedicò un libro. Il contratto che io immagino è nuovo perché non riguarda soltanto le persone umane, ma include anche ogni altro elemento del Creato. I lontani monti, i boschi profondi e ombrosi, i mari immensi e inquieti, i cieli azzurri e quelli stellati sotto ai quali gli animali e le piante vivono in costante armonia, io li vedo, insieme alle persone umane, i fattori integrali del nuovo contratto, e me li rappresento, nel loro insieme universale, come un paradiso terrestre dei nostri tempi, un ambiente al tempo stesso incantato e sacro, privo di confini, che spiega le sue ali su ogni recesso più lontano del Creato.
Forse però ultimamente abbiamo un po’ trascurato alcune regole naturali che per così lungo tempo sono state il verbo di un tipo di vita genuino e vero; forse abbiamo perso l’armonia che equilibrava il dare e l’avere nei rapporti tra noi e il Creato, e abbiamo iniziato a consumarlo, anziché utilizzarlo seguendo i bisogni naturali e necessari, come predicava Epicuro e come hanno fatto prima di noi centinaia di generazioni senza nome. Per questo, se ora guardiamo nei nostri cuori con il coraggio della verità, se, in accordo con il pensiero di Kant, alziamo gli occhi al cielo sopra di noi e interroghiamo la legge morale dentro di noi, riconosceremo di esser stati figli prodighi, e allora, come in una corale confessione pubblica che coinvolge gran parte di noi, riconosceremo che se il Creato oggi ci chiede aiuto, anche noi siamo responsabili delle sue pene.
Pensiamo allora ai nostri figli, alle generazioni future, che più di ogni altra cosa sono la speranza del domani; pensiamo al mondo che riceveranno in eredità da noi, e che dovrà essere leggermente migliore di questo; pensiamo al retaggio del passato, senza il quale, come insegnano i filosofi, non vi è futuro. Se dimenticheremo gli insegnamenti del passato come potremo avviarci per le strade sicure della giustizia morale? Verso i giovani siamo debitori, mi sembra, di un tempo che abbiamo loro sottratto, delle speranze che seguono agli ideali; e i loro occhi ancora cercano i nostri, che sono spesso fuggitivi, perché non ci è facile rispondere con uno sguardo altrettanto diritto e vero come il loro.
È anche pensando con timore amorevole alle nuove generazioni che immagino il nuovo contratto sociale con il Creato, perché vorrei che i figli degli uomini di oggi possano avere la possibilità di tornare a vivere in un pianeta dove gli animali, le piante, le acque, ritrovano il tempo e il luogo per rigenerarsi secondo la natura, con quei ritmi larghi e sereni che hanno segnato per millenni il tempo della storia umana; un tempo e un luogo dove i boschi tornano a riconquistare la terra, sottraendola ai deserti, rianimando il pianeta di ossigeno e di frescura.
Così mi piace sognare che le generazioni future potranno vivere dove riterranno di riconoscere la loro patria, e avranno il mondo intero come scelta libera; se sapranno vedere nelle grandi migrazioni delle genti un’opportunità piuttosto che un pericolo, se per loro la riparazione e il riuso degli oggetti prevarrà sulla tentazione dello scarto, se lo Stato e le leggi non saranno ritenuti obblighi imposti ma mezzi di vita civile da rispettare per una vita più giusta; se sapranno sviluppare tecnologia e umanità come sorelle amabili, se ogni angolo del pianeta sarà considerato patrimonio di tutti e di ciascuno e infine, se, come pensava Adriano Imperatore, sapranno considerare i libri come i granai dell’anima, saranno felici.
Tale è il contratto sociale che mi piacerebbe stipulare con il Creato, tale l’aiuto che sento di voler dare come risposta amabile ad un custode così premuroso. Grazie, che il Creato illumini il nostro cammino.
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