Editoriali
Martedì 04 Febbraio 2014
Lasciamo crescere
chi riesce a ripartire
lasciamo crescere
chi sa ripartire
Avere un’esperienza invidiabile e non poterla più investire: è una sofferenza se si lavora per passione, oltre che per mantenere se stessi e la famiglia.
Chi è bravo nel suo mestiere, come Fabio Faienza, non può che sentirsi ferito quando non riesce a fare ciò che ama. Perché le condizioni sono cambiate, perché prima bisogna pensare a pagare il mutuo, a sopravvivere e a costruire un futuro ai figli.
La sua storia - da operaio specializzato nel tessile a titolare di un’impresa delle pulizie - ha delle affinità con quella degli ex dipendenti dell’Anors.
C’è anche una differenza, a dire il vero. Loro sono ripartiti da competenze messe a frutto negli anni, sono cioè rimasti nel loro campo. Fabio non ha potuto farlo, perché l’aria era mutata e la sua specializzazione faceva gola sì - racconta - ma essendo in mobilità veniva preso dalle aziende tessili con contratti precari. Aveva bisogno di più, di una stabilità pur duramente guadagnata.
Di questo comasco colpiscono la lucidità e l’umiltà. Addio lavoro in reparto? Subito a imparare altro, senza sprecare un minuto. Avanti a seguire imbianchini e giardinieri per rubare i segreti del mestiere senza mettere in tasca un euro: un investimento di tempo e nozioni per il futuro, che lui già individuava già.
Chi sa mettersi in discussione anche se è bravo e riesce a rinascere così, può subire soltanto una ferita più dolorosa: vedere che le cose vanno anche bene, perché lavorando sodo si è premiati, ma non si può crescere. Che bisogna sempre camminare sul filo del rasoio.
Gli ex dipendenti Anors, fondatori di una cooperativa, e questo ex operaio tessile si conquistano il lavoro ogni giorno. E vorrebbero condividerlo con altri, per poter aumentare dimensioni e incarichi certo, ma anche perché sono passati dal calvario della disoccupazione e vogliono dare una mano a chi è ancora immerso lì. A chi improvvisamente si è trovato senza un impiego e senza speranze.
Il problema è che di crescere oggi in questo Paese, ancora troppo spesso impegnato in bagarre inutili a Roma e non solo, non se ne parla. Che se si mette da parte un gruzzoletto salvavita, la prima scadenza delle tasse lo cancella.
Che tu sei disposto anche a soffrire, a saltare uno stipendio o aspettare qualcuno in difficoltà nei pagamenti, ma come puoi riversare queste difficoltà su un dipendente?
I dubbi di questi neo imprenditori si sovrappongono e restano scolpiti nell’amarezza. Amarezza, sì, perché non c’è nemmeno rabbia quando si ascoltano queste persone, impegnate ogni giorno a guadagnarsi la vita: non è questo che esprimono.
Potevano lasciarsi andare, è comprensibile, eppure non l’hanno fatto. Alle lacrime hanno preferito un atteggiamento combattivo e hanno cominciato, pur tra le difficoltà, la loro nuova esistenza. Chiedono di poterla condividere, perché anche questo la crisi ci ha insegnato: a essere solidali e a tendere una mano agli altri.
Lo Stato non può continuare a fermare quella mano, con fili odiosi. Se una persona riparte da sola - con un coraggio che chi conosce unicamente le poltrone facili non può comprendere - ha il diritto almeno di non essere ostacolata, quando vuole crescere. Tanto più perché lo vuole fare per e con gli altri.
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